Al Pitti Immagine di Firenze quest’anno, il designer più atteso è stato Jan Jan Van Essche.
Commista alla grande aspettativa, c’era una bella euforia che aleggiava attorno alla presentazione di questo show.
Van Essche è uno di quei designer che nell’arco degli ultimi 25 anni si sono distinti per la trasversalità geografica e temporale della loro ricerca, evidenziandosi per le linee, per le tecniche sartoriali artigianali e per la consapevolezza e conservazione dei valori etnici dei costumi tradizionali.
In un momento storico infuocato da divisione, da guerre, da scontri sociali, Van Essche, in particolare, è il ricercatore che unisce, che porta approfondimento e conoscenza dell’altro e condivisione delle esperienze.
Negli ultimi 25 anni, questi valori sono stati sinonimo di avantguarde dapprima nel segmento del design sartoriale artigianale e poi haute couture.
Avantguarde che nella moda ha preso la definizione di lusso umile, e che oltre a Van Essche (aka JanJan, alla fine degli anni ‘90 quando frequentava la fucina creativa di Maurizio Altieri), si dispiega attraverso il patriarca, appunto, Maurizio Altieri, ByWalid, Paul Harnden, InAisce, Eyn Vas, Isabella Stefanelli, Tamagna (design di upgrade dei costumi tradizionali sauditi), Layer-0, Incarnation, Lumen et Umbra, Forme d’Expression, Damir Doma, Devoa, Viridi Anne, Individual Sentiment, Boris Bidjan Saberi, e altri.
Ecco, il minimo comun denominatore fra tutti questi designer è stata la capacità di ingaggiare con il pubblico (che ha capito pienamente e immediatamente) un dialogo sull’esigenza nel nostro tempo di prendere coscienza di un mondo-altro da conoscere e approfondire, portatore di forme e valori che ne substanziano la realtà.
Il mondo-altro a cui la moda ha fatto riferimento e attinto, e che sempre più andava a consolidarsi nella sua esperienza di ricerca e visione, per portare e illustrare una immagine futura dell’umanità, attuale e puntuale alla storia, è stato quello delle forme dei costumi islamici.
E, schizofrenicamente, se da un lato l’agenda della propaganda ne demonizzava la cultura in tutto il mondo, (esattamente negli anni attorno al 2014) l’Occidente iniziava a scegliere per il proprio look più contemporaneo shalwar, kamiz, dupatta e gonne fino ai piedi e maglieria oversize, del tutto ignaro e incurante che si trattava proprio dei costumi tradizionali della cultura più invisa del momento.
L’Occidente, senza rendersene conto, approfondiva, imparava a conoscere e ad amare le forme de l’altro-da-sé, a dispetto degli strilloni banditori.
E vale anche la pena ricordare un’altra esperienza di notevole interesse.
Eravamo agli sgoccioli del millennio scorso e Levi’s, stranoto e solido brand di produzione di jeans, registrava una gravissima flessione delle vendite.
E’ stato il momento in cui il pool di creativi interno ideò la linea Engineering, una linea completamente nuova che introduceva nello styling del brand l’uso di cuciture ergonomiche curve tese ad assecondare i naturali movimenti dell’anatomia umana, volgarmente note come “tagli a zucca”.
La collezione Engineering fu un gran successo, riportò un’impennata delle vendite su tutti i mercati, risollevando così il brand dalla crisi.
In realtà, questo restyling rappresentò una vera e propria rivoluzione rispetto all’estetica tradizionale del brand, che si era sempre identificata nelle linee dritte e asciutte e spesso fin troppo strizzate al corpo. La linea Engineering si presentava comoda, ampia, oversize e al tempo stesso feet in alcuni punti, un risultato che era stato ottenuto sostanzialmente ottimizzando e attualizzando alla contemporaneità i costumi tradizionali delle popolazioni mediorientali e asiatiche, in buona sostanza musulmani.
Infatti, Engineering ha significato jeans dal cavallo molto basso, i volumi ampi, gli orli di camicie e giacche decisamente allungati.
Chi non ricorda quegli spot pubblicitari e la cartellonistica stradale “Twisted Jeans” del 1999, in cui i modelli erano impegnati nelle torsioni più acrobatiche!
Come abbiamo già visto, l’idea, senza perciò nulla togliere alla prontezza di spirito del pool creativo Levi’s che formulò la proposta e dei vertici del brand che la introdussero nel mercato, era già nell’aria, e soprattutto nel nord Europa, proprio dove sta di casa la sede nevralgica Levi’s.
L’avanguardia dei designers rivoluzionari stava lavorando già in questa direzione da una decina di anni, aveva già capito quanto fosse fondamentale per conquistare i mercati nel prossimo futuro riportare l’attenzione sulle qualità naturali delle materie prime, sulla manifattura artigianale, attenzione che corrispondeva coerentemente con l’estetica dignitosa e contegnosa dei costumi islamici.
Improvvisamente, la regalità umana e la compostezza erano tornati in primo piano, con il “lusso umile”, e a dire il vero, nessuna definizione potrebbe attagliarsi meglio alla nobiltà e alla dignità dell’estetica islamica tradizionale.
In ogni continente erano fioriti i brand artigianali che andavano a guadagnarsi un mercato parallelo a quello del lusso mainstream. E più la tendenza cresceva, e più queste collezioni non assomigliavano solo formalmente alla fonte da cui attingevano, ma anche concettualmente.
Queste forme colloquiavano con un pubblico ben specifico, colto, informato, disposto a ripensare completamente il proprio stile di vita, a una riflessione più consapevole del modo sul stare al mondo rispetto alle problematiche ambientali e ecologiche, al consumo insano di beni e alla compulsione per gli acquisti scellerati.
Offrivano, così, una visione formale e concettuale sul futuro possibile dell’umanità.
Un bene, il cui valore è dato dall’oggettiva qualità delle risorse impiegate, sia naturali che manifatturiere, non può finire in quell’isola di spazzatura che soffoca il pianeta nel giro di pochi mesi, come accade con i prodotti dei brand di massa a prezzi inumanamente troppo bassi.
La naturale conseguenza è stata che perfino i brand di massa hanno dovuto rivedere il loro mercato e le loro politiche aziendali di produzione e di commercializzazione.
L’avantgarde è sempre stato il design anti-borghese per eccellenza. È un fatto. E non per puerile antagonismo, piuttosto per la sua naturale spinta ad allungare la visione oltre ciò che è già esperito.
L’avantgarde porta in sé quello spirito da disturbatore che ispirava gli architetti del Barocco, e dell’Illuminismo dopo, che ha bisogno di conoscere a perfezione le leggi ingegneristiche per poterle aggirare, e che, non potendo ancora sostituire la parete di mattoni con quella di vetro, la denigra e sbeffeggia fino a disintegrarla sotto caricature e fughe illusionistiche.
L’avantgarde ha nel suo DNA la matrice primigenia del punk che sgombra dalla propria visuale il già noto perché impaccia inutilmente lo spazio, fagocitando nuova energia vitale necessaria a portarci verso il non-noto.
L’avantgarde si porta dentro quella fame goethiana di conoscenza e di sapere, propria di chi ha approfondito tutto ciò che poteva e “sa di non sapere” ancora l’altro.
Nell’ambito del design haute couture, un nome per tutti, Martin Margiela, rivoluzionerà per sempre ogni regola e codice del mestiere traghettandolo fuori dall’asfissia in cui versava il fashion system degli anni ‘90.
La conoscenza maniacale, ossessivamente puntuale di tutte le fasi di progettazione e lavorazione dell’alta tradizione sartoriale, per poterla destrutturate totalmente mantenendola credibile, Martin Margiela rimane una delle poche menti creative per il quale la definizione di genio non va sprecata.
E così, Rick Owens al quale va tributata l’instancabile e coltissima ricerca sulla visione.
E Maurizio Altieri, grande consapevolezza delle tecniche tradizionali, dell’ingegneria del pezzo e visionarietà senza confini.
A lui, tutti i giovani designer, formatisi alla fine degli anni’90, devono la posizione che oggi occupano in questo segmento di mercato.
Ora, siamo addirittura alla seconda generazione di quell’epicentro.
Ecco, questo segmento avantgarde che cerca senza posa, che vuole conoscere trasversalmente tradizioni, geografie, storie, tecniche, fare esperienza diretta della verità, che non si accontenta delle propagande mainstream, alla fine degli anni ’90, dopo essersi tuffato completamente nella tradizione nipponica attualizzata dai suoi grandi testimoni, i monaci del nero, Yamamoto, Miyake, Kawakubo, e dal loro seguito, in piena reinassance, uno per tutti, Watanabe, approda ai costumi di tradizione islamica, quelli che derivarono, in buona sostanza, dalla riforma estetica moghul-ottomana dell’imperatore Akbar.
Nella riflessione sul concetto di lusso umile mutuato dal costume islamico, un ulteriore elemento merita davvero un’attenzione speciale, è il rammendo.
Nello scenario creato da questi designer, il rammendo che, dopo la Seconda guerra, noi occidentali avevamo relegato all’ambito dell’economia domestica, assume un concetto di valore di tutto rispetto.
Siamo in un ambito focalizzato sulla ricerca di tessuti di altissima qualità naturale, e sulle varie fasi del processo di filatura cardatura e tessitura, che addirittura decide a che punto interrompere il processo di finalizzazione per tutelare al massimo le qualità e le proprietà naturali del materiale; sulla conservazione delle tecniche artigianali sartoriali di cucitura e sugli strumenti tradizionali di lavorazione.
Qui il rammendo viene riportato fin dentro l’haute couture, interpretato per la prima volta come un valore aggiunto, come un fattore che nobilita il capo.
Da un punto di vista sociologico antropologico è una grandissima operazione, è l’importantissimo recupero della nostra storia attraverso i concetti alti della cultura mediorientale e asiatica.
Attraverso la presa di coscienza che le tecniche di Sashiko, Kaketsugi, Boro boro, sono vere e proprie arti conservate oggi in musei dedicati in Giappone, ci riappropriamo del valore dei gesti che vedevamo compiere dalle nostre nonne, e nonni anche, perché, così come nella tradizione islamica è consigliato a chiunque di saper essere in grado di riparare la propria giubba lisa e strappata, era così anche nella nostra tradizione.
Il rammendo è una pratica fortemente simbolica per la psiche, porta un fattore di guarigione.
Le fratture della vita si riparano, la ferita, la cicatrice, va valorizzata affinché non perda il suo significato positivo.
Riparare una ferita è un atto che fortifica e che rafforza l’integrità della persona e la sua identità.
Il concetto del rammendo in Islam ha una qualità di bellezza perché ci ricorda che la perfezione non è degli uomini.
“L’imperfezione è in qualche modo essenziale per tutto ciò che sappiamo della vita. E’ il segno della vita in un corpo mortale, vale a dire, di uno stato di progresso e di cambiamento incessante.” scriveva John Ruskin, un resiliente del socialismo utopistico.
E così i giovani occidentali hanno scoperto che indossare gli abiti della tradizione islamica è cool.