L’inarrestabile cavalcata dell’intelligenza artificiale non conosce pause. L’ultimo passo spetta ad Open Ai, la società che ha sviluppato ChatGPT, un programma, basato su una rete neurale, capace di fornire risposte a qualunque domanda in ogni possibile lingua.
Traduciamo: si depositino in uno scatolone tutte le conoscenze e le esperienze umane, si prenda poi una mano invisibile capace di afferrare i singoli dati, di combinarli per creare nuove soluzioni ad ogni problema proposto. Il tutto nel giro di pochi secondi, se non istanti. Esempio pratico: c’è una causa legale da imbastire, tra qualche anno l’AI permetterà in pochi secondi di trovare codici, leggi e sentenze maturate in ogni anfratto dell’universo ma non solo…… in base alla disputa in questione, proporrà anche la migliore strategia da adottare. Estendete tale logica alla medicina, all’insegnamento, alla psicologia o alla politica e l’intelligenza trionferà. Con buona pace degli inetti, lenti, futuri disoccupati.
Peccato soltanto sorga un dubbio: farà prima l’uomo a ridurre le sue capacità cognitive, diventando in qualche modo meccanico o l’intelligenza artificiale a diventare così evoluta da riprodurre la complessità umana? A giudicare dai progressi del linguaggio digitale, dall’alfabeto costretto in immagini, dalla memoria racchiusa in un indice, insomma dall’intero sistema cognitivo ridotto a tatto, si propende per la prima ipotesi.
Poi appaiono i famelici miliardi investiti nella AI, gli occhi dei nuovi signori del mondo spalancati sul sogno di unire futuro e presente, allora… Magari intelligenza umana e artificiale si incontreranno a metà strada, si riconosceranno e festeggeranno il loro matrimonio. Le mirabili e definitive nozze tra un disabile cognitivo e un computer superomistico.
Eppure l’umano e l’artificiale già da anni si influenzano a vicenda. Si pensi alle scienze cognitive che hanno sfruttato la robotica per comprendere il funzionamento della psiche umana. Di fatto l’intelligenza umana ha creato un suo simulacro, l’ha purificato, per poi capire se stessa. Come se un dio perennemente insoddisfatto e depresso, avesse creato l’universo a sua immagine e somiglianza soltanto per meglio comprendersi.
Strani e paradossali intenti che non eliminano un dubbio residuo: qual era il parametro da comprendere, il fine da raggiungere? La complessità dell’umano o l’efficienza della robotica?
Si scrive intelligenza artificiale, si legge artificio dell’intelligenza.
Si tratta infatti di una facoltà, una specie di muscolo capace di memorizzare, elaborare, sentire, prevedere e calcolare. Una sequenza buona ad evitare il caso, la malasorte e meglio adattarsi al contesto circostante. L’intelligenza è infatti il più complesso artificio umano, lo strumento principe per trasformare la natura in artefatto, manipolarla. Se tale capacità finisse nelle mani di un organo esterno, tanto meglio; l’uomo sarà libero una volta ancora. Dai miti, da Dio, dalle filosofie, dalle ideologie e finalmente dall’intelligenza stessa. Definitivamente libero. Già, ma per fare cosa?
Ma certo, funzionare! Produrre efficienza, cioè legare indissolubilmente le cause e gli effetti. In fondo l’intelligenza – prima di divenire multipla per camuffare il suo impoverimento – è stata sempre identificata con la logica. La logica non è altro che il filo mediante il quale unire la causa con l’effetto; da qui è nata e si è sviluppata la trama della scienza. Finché il filo è rimasto lineare, c’è stato il regno della curiosità, cioè della sperimentazione e della ricerca.
Quando il filo si è spezzato e gli effetti sono rimasti soli, si è dato il regno della tecnica. Così l’efficienza è rimasta l’unica divinità a cui appellarsi. Che l’uomo si sia spinto a realizzare il suo prolungamento naturale, il simulacro della sua migliore facoltà, è allora la più ovvia delle cose.
E poi pensiamoci bene. L’AI finalmente ridarà alla verità la sua fonte, quindi la sua vera fine. In pieno spirito democratico la verità oggi oramai appartiene al numero, alla moltitudine, alla maggioranza. Un’idea, un gusto, un dato è vero soltanto quando è suffragato dai numeri e ciò rende ogni cosa precaria, controvertibile.
Ne nascono discussioni, disorientamenti, relativismi. Una situazione faticosa, aleatoria che ha risucchiato tutti, nessuno escluso. Partendo dai filosofi, scendendo tra gli intellettuali fino a cadere tra opinionisti e giornalisti. Dieci giornalisti concordanti fanno un’autorità al cospetto di uno discorde, ormai privo di autorevolezza e prossimo a finire nel circo complottista.
Un’opinionista suffragato da milioni di seguaci abita la verità istantanea, uno con pochi fedeli giace nell’irrilevanza. Allora l’unica via per tornare all’uno, alla parola definitiva e autorevole sta in un elaboratore che sintetizzi la memoria universale per restituirne l’essenza. A quel punto nessuno potrà controbattere, la somma di numeri non servirà più di fronte ad una macchina, basata sulla pura logica del numero. Una volta per attingere al vero il saggio rifuggiva l’esperienza, il saggio artificiale conterrà tutte le esperienze in unico atto.
Maledetto ottimismo che porta a dimenticare i problemi, le disfunzioni che nonostante tutto continueranno a permanere. E già perché l’uomo, sebbene liberato dall’intelligenza e dalla verità, dovrà pur continuare a lavorare, ché l’ozio nell’era dell’efficienza resta il peggiore dei peccati. La diffusione dell’intelligenza artificiale sancirà la definitiva rivoluzione digitale, porterà cioè all’annullamento di una moltitudine di vecchi lavori e analogiche professioni.
Questa è cosa certa. Sta per accadere quel che si è manifestato durante il passaggio dalla pastorizia all’agricoltura, poi dalla terra alle fabbriche e infine dall’industria alla società dei servizi. Mestieri sminuiti, decaduti e altri creati o ricreati. In apparenza una liberazione dietro l’altra, se non altro dalla fatica, di fatto una schiavitù sempre simile a sé stessa.
Pochi posseggono, molti eseguono e riproducono.
Il tempo dovrebbe esser sempre più liberato, il lavoro affrancato eppure il lamento non termina mai. Liberati dalla terra per poi rimpiangerla e trasformarla in biologica. Una fatica avvelenata mutata in rimpianto della purezza. Liberati dall’industria, emigrata altrove, per riscoprire più tardi la qualità degli operai made in Italy. Liberati dall’alienazione dei servizi e poi mettersi in fila ai concorsi per il posto pubblico e fisso.
E così magari finiremo per rimpiangere i vecchi, farraginosi mestieri intellettuali. Ma non c’è nulla da temere: ci sarà sempre qualcuno che preferirà un avvocato bio o un perma-insegnante, che con le loro giacche logore e gli infiniti giri di parole avranno più fascino dei loro colleghi, affinati in una tenuta di scintillante, efficiente metallo elettrico. Qualcuno che continuerà a pensare che le risposte sono l’unico vero artificio e l’attesa la sola verità.