C’era una volta un regno desertico, dalle cui viscere iniziò a sgorgare un liquido, portatore di benessere e prosperità. Il miracolo del petrolio donò al re un posto importante sulla scena del mondo. Fu così che l’Arabia Saudita si sedette al tavolo dei Grandi della terra, famelici dell’unico combustibile capace di incendiare i loro sogni di sviluppo.
Il paese crebbe e il re invecchiò mentre i suoi molti figli non brillavano per intelligenza e intraprendenza finché l’attenzione non cadde su uno degli ultimi arrivati. Si trattava di un ragazzo studioso e attento che dietro le quinte osservava, scrutava i comportamenti di fratelli e fratellastri cresciuti tra i vizi del denaro.
Fu così che il giovane Bin Salman finì con assumere il potere quando il padre era ancora in vita. Nel giro di poco tempo un diseredato si ritrovò principe ereditario per divenire infine re in pectore. Un re che, a furia di annusare gli odori delle tavolate coi grandi, finì con l’apprezzarne i costumi, gli intrattenimenti, gli svaghi. Nel regno furono introdotti concerti, grandi eventi sportivi e costumi più liberali, trasgredendo lo spirito conservatore della cultura dei padri.
Ma il principe non si volle fermare. Avvertì che al tavolo dei potenti c’erano sì ogni sorta di piacere e prelibatezza ma da un po’ di tempo oramai mancava la visione. Tutti avevano gli occhi rivolti in basso, lo sguardo di chi insegue senza riuscire a guardare avanti, ad immaginare. Era sparito lo spirito di un sogno: l’utopia.
Il non-luogo (u-topos), da sempre capace di guidare i tempi, si stava trasformando in un ammasso di non-luoghi (case, quartieri e città orfani d’identità). Tutti i Grandi apparivano allora figli automatici di un vecchio principio di produttività e di benessere.
Dai loro sguardi drogati di passato era stato ormai rimosso l’occhio di utopia. Fu allora che il principe s’incagliò nell’impossibile, vide “un salto di civiltà per l’umanità”: costruire una città di vetro nel deserto. Tutto chiaro: un tempo l’utopia svelava il presente, oggi i non-luoghi si limitano a occuparlo; e allora perché non riunire entrambi nello stesso seme, in un progetto chiamato Neom?
Così i Grandi dell’Occidente non si sarebbero più volti ad Oriente per inseguire la scia dell’oro nero ma si sarebbero voltati per seguire la forma di una nuova città ideale. La vita in terra avrebbe conosciuto “una rivoluzione degna delle piramidi egiziane”. La civiltà del futuro avrebbe contenuto mare, montagna, colline e deserto, tagliati da un’unica linea lunga 170 km e alta 500 metri: the Line.
Dato che la vita di ogni essere umano si compone e scompone in pochi elementi essenziali che di norma si disperdono in inutili rivoli cittadini, causa di ingorghi e d’inefficienza, perché non trasformare la linearità occidentale in un vero e proprio spazio vitale?
Le piante urbanistiche delle vecchie città restano pur figlie di un altro tempo e di una geometria spirituale ormai desueta. Cerchi, quadrati, pentagoni cui oggi possono aggiungersi soltanto periferie o nuovi centri per trasformare le metropoli in megalopoli.
Tutta un’altra cosa invece l’intera città stesa su una sola linea, o meglio due, visto che a nascere sarebbero due grattacieli, l’uno di fronte all’altro, due specchi capaci di riflettersi e riflettere la luce dei paesaggi circostanti.
Sotto la sabbia del deserto, i binari di una metropolitana lunga quanto l’intera città (quasi duecento chilometri percorsi in trenta minuti), sopra gli alloggi, e salendo ancora più in alto gli uffici, poi ancora gli svaghi fatti di bar, discoteche, stadi, piscine ed ogni sorta di piacere quotidiano.
Non mancherebbero ospedali, cimiteri ed ogni possibile servizio collettivo. A riempire l’orizzonte della Linea ci penserebbe una nuova natura verticale, fatta di piante, alberi, coltivazioni e allevamenti per sfamare tutti gli abitanti. Ma non basta… perché non si possono trascurare i nuovi valori e non si può dimenticare la terra, che è una sfera sempre più malmessa.
Ecco che la città non dovrebbe produrre inquinamento. Con l’aiuto di vento, sole, acqua desalinizzata e un po’ di chimica, l’energia prodotta dagli abitanti sarebbe circolare: che si sfrutti infine soltanto ciò che si produce! Finalmente l’antropocentrismo mascherato alla perfezione da geocentrismo. L’ego si fa eco, così la città non occupa più l’orizzonte, lo taglia.
A destra e a sinistra il nulla del deserto, nel cuore del centro il riempimento totale del benessere, la vita programmata e lineare. Se vai oltre la linea ogni cosa diventa un suo riflesso, un ricordo di vetro, se resti nel centro abiti la giustizia dell’efficienza.
Da dove viene Neom? Sarà stato un sogno oppure il racconto di un amico illuminato, in ogni caso resta un mistero dove il principe abbia attinto una tale idea: riassumere la direzione dell’intera esistenza umana in una linea stratificata, figlia non più del tempo divino ma dello spirito produttivo. Forse il principe avrà pensato all’antico rapporto tra uomini e abitazioni, alla storia iniziata con la volontà di scrivere sulla terra per abitarla.
Un tempo ci si serviva di quel che si trovava in superficie. Di fango, legno, stoffe, ghiaccio, paglia o pietra… le prime dimore erano sosta su un terreno. Poi il sostare mutò in permanere e la dimora si trasformò in abitazione (habitare significa possedere). E da lì in poi iniziò tutta un’altra storia, che a poco a poco ha portato alla civiltà del mattone e del cemento, materia e sostanza di due vecchi nemici fraterni come capitalismo e comunismo, così lontani nelle parole, così vicini nell’estetica.
Idee di civiltà fondate su un unico principio: la massificazione degli spazi abitativi. Un mattone dietro l’altro per cumulare le tacche del progresso, leste a trasformarsi in rovine. Eppure nel frattempo diversi sogni di vetro sono già nati. Innanzitutto i grattacieli, che però si sono rivelati semplici falli di cattedrali, rivolti al cielo per omaggiare l’efficienza degli affari.
Non bastano dunque i grattacieli, c’è bisogno di una vera e propria architettura di vetro per comprendere l’utopia di Neom. Una visione che per incanto viene dalla lontana Germania d’inizio Novecento, dallo sguardo visionario di Paul Scherbart, architetto visionario e romanziere dell’assurdo, che fissò l’immaginario sui lineamenti della futura città di vetro.
I suoi sogni confluiscono nell’utopia imprenditoriale di Bin Salman. Da questa unione nasce la geometria di una nuova civiltà della trasparenza, capace di rimuovere la vecchia era del segreto e della separazione.
Se i mattoni da sempre scandiscono il tempo come lancette di un orologio, rappresentando la vanità del tempo pulsato nelle vene dello spazio, il vetro allora dovrà riflettere la trasparente immanenza del presente, cioè l’eternità dell’istante perennemente rivelato a se stesso.
Case fatte d’intere vetrate e senza finestre per finalmente vedere e farla finita con l’immaginazione. La visione infatti riduce la distanza tra l’interno e l’esterno, l’immaginazione è invece proiezione dell’interno verso l’esterno.
Così la dimensione abitativa dell’uomo non sarà più la terra, così pesante e drammatica, ma l’aria, così leggera, al semplice livello del respiro; questo grazie anche alla luce emanata da riflettori presenti su ogni palazzo (nel progetto di Neom c’è l’idea di illuminare la sabbia durante la notte e di creare una seconda luna artificiale).
Il giorno e la notte finalmente si confonderanno, annullando l’origine di ogni contrasto. Giorno e Notte, Bene e Male, Giusto e Sbagliato, pilastri di intere civiltà, si dissolveranno perché la città di vetro diverrà un vero caleidoscopio pacifico.
Vetri colorati, luci tenui educheranno al bello o meglio alla trasparenza della bellezza, scacciando l’aria di pesantezza e di trincea, propria delle case fatte di mattoni e separazione. In una tale civiltà infine il viaggio diverrebbe totalmente inutile come lo stesso Scherbart affermava: “Al giorno d’oggi si viaggia per puro nervosismo.
Si continua a cercare qualcosa di diverso. E benché tutto (mare, montagna, alberghi) si rassomigli maledettamente, lo stesso ci si mette in viaggio.” Invece nella città di vetro mare, deserto e montagne saranno un riflesso permanente, assorbito attraverso la luce. “Quando la vita domestica sarà giunta al punto che anche le più audaci fantasie appariranno in essa realizzate allora, semplicemente, cesseremo di anelare a ciò che è lontano e diverso da noi.” Infine la civiltà della decorazione si affermerà sulla città della separazione.
Tra la Neom sognata da Bin Salman e la Civiltà di vetro immaginata da Scherbart restano la distanza di un secolo, il ponte dell’immaginario e due anelli concreti di congiunzione.
Secondo l’architetto tedesco la città di vetro avrebbe dovuto rappresentare un ampliamento della concezione spaziale dei giardini arabi (che gli arabi stessi vogliono ricreare artificialmente nel deserto); inoltre la presenza nell’Alhambra di una meravigliosa stanza decorata, le cui decorazioni ripetono un’unica frase: “Non c’è vincitore se non Allah”, sta a significare che le residenze umane non devono più avere confini, e la trasparenza è ciò che non ha confini.
Intanto la cronaca ci parla dell’esistenza di una semplice buca, da mesi scavata nella sabbia della regione di Tabuk, per inseguire la traccia della Linea. Non resta che chiedersi: questa città si farà o non si farà? Non-luogo o Utopia?