A cogliere alla perfezione una caratteristica fondamentale, forse addirittura un tratto dominante della nostra epoca, è stato Aleksandr Dugin parlando della prevalenza del «logos di Cibele». Antica incarnazione della Grande Madre, Cibele è una dea dell’oscurità, delle profondità terrestri.
Che il femminile sia legato alle forze naturali, e dunque alla terra, proprio in virtù della sua capacità generativa lo riconoscono persino studiose femministe come Camille Paglia. E nella fecondità sta uno degli aspetti più importanti e salvifici della donna, non soltanto a livello fisico ma anche simbolico. La donna è, come la terra, colei che nutre, è il rigoglioso fiorire della creazione, la base stabile su cui tutti noi possiamo piantare i piedi e sentirci così sicuri da poter rivolgere lo sguardo al cielo.
La caratteristica principale del maschile è esattamente questa: lo slancio verso l’alto, la spinta a trascendersi, come ha ben spiegato lo psicanalista Claudio Risé. Quando maschile e femminile sono in equilibrio e si uniscono, si giunge a una pienezza spirituale che permette agli esseri umani di esprimere il dono divino, la capacità di dare la vita.
Il vero problema, oggi, è che del maschio e della femmina tendono a prevalere gli aspetti oscuri e caotici. Nel mondo disincantato non siamo più spinti a guardare in alto, ma trascinati verso il basso, nelle profondità infernali. In questo quadro l’affermarsi del logos di Cibele indica il prevalere di questo femminile negativo, di questa madre terribile che regna sugli abissi, dove è caos e scatenamento degli istinti animali.
Non è difficile notare come il disordine segni i nostri giorni. La cosiddetta fluidità è divenuta la regola, la società liquida di cui parlava Zygmunt Bauman è capace di inghiottire qualunque pensiero e qualsiasi istituzioni solida e forte. Questo, del resto, è l’ordine di Cibele. Lo psicologo Jean-Pierre Lebrun, che certo non scriveva a partire da una prospettiva di fede, ha efficacemente descritto la situazione attuale, derivata dall’abbandono dell’ordine paterno.
Il padre, è noto alla psicologia del profondo, rappresenta l’ordine verticale, la gerarchia, l’ordine. E’ il padre che stabilisce le regole e segna i confini, marcandoli sul terreno. Se il padre svanisce, evapora o viene ucciso, ecco che il limite viene a mancare. Viene meno l’autorità che poneva freno al desiderio illimitato, vero motore del capitalismo globalizzato.
Tutta la storia recente dell’Occidente è stata caratterizzata da questa lotta feroce contro il padre, identificato – già a partire da Freud e dai suoi primi allievi, in particolare Wilhelm Reich – come il Grande Oppressore, colui che impone leggi e frena il desiderio (cioè, apparentemente, impedisce il godimento).
Abbiamo voluto uccidere il padre, dunque, nel tentativo di garantirci una «liberazione» che avrebbe dovuto far trionfare – almeno nei sogni delle femministe e dei (presunti) rivoluzionari del Sessantotto – un ordine materno, accogliente e dolce, felice e piacevole.
In realtà, è finita molto diversamente. Il tentativo di liberarsi del padre non ha prodotto altro che l’emergere di un femminile terribile e di un nuovo maschile diminuito e caricaturale. Gli antichi adepti della dea Cibele praticavano culti in cui, al culmine di danze e in preda all’ebbrezza, giungevano a evirarsi. Ebbene, simbolicamente è ciò che avviene al maschio contemporaneo. Per rendere grazie alla Grande madre oscura che domina il nostro tempo, il maschio si devirilizza, cioè letteralmente perde le sua forza, che è anche la spinta verso l’alto, verso il divino e la trascendenza.
Oggi la lotta contro il maschio assume forme caricaturali, si manifesta tramite pietose battaglie politiche «contro il patriarcato» e l’oppressione paterna. A ben vedere, però, non si tratta d’altro che di una lotta contro Dio, e contro la trascendenza in generale. Eliminare la verticalità dell’esistenza significa cancellare lo spirito e consegnarsi a un mondo senza regole.
La ragione del caos imperante è tutta qui: sta nella scomparsa del padre. Perché se non si ha un padre non si può essere fratelli, cioè membri della famiglia umana, legati in una comunità. Scrive Lebrun: «L’appartenenza a un insieme nel senso forte del termine ci rende figli dello stesso Padre, e attraverso la sottomissione alla sua legge, ci rende sottomessi alle leggi condivise da tutti». Ma con la scomparsa del padre, ecco che in Occidente «non esiste in realtà un “tutti”; resta solo un aggregato, una coesistenza di individui gli uni al fianco degli altri, presi uno ad uno». Non è un ritratto realistico della nostra società? Non è forse vero che l’individualismo trionfa a spese della comunità, della famiglia, dei legami solidi?
Credendo di diventare più liberi, abbiamo creato un mondo di individui isolati, soli, infelici e sottoposti a un nuovo culto, pronti a venerare il feticcio di una Grande Madre terribile che ovunque trionfa (l’ossessione ecologista e i costanti riferimenti all’importanza di Madre Natura sono piuttosto indicativi).
Attenzione: è bene non essere fraintesi. Sono esistite ed esistono sacrosante rivendicazioni femminili. Come la madre può rivelarsi oscura e feroce, così anche il padre – se non è bilanciato da un sano rapporto con il suo opposto – può perdere il controllo e diventare oppressivo, totalitario, violento.
Il Novecento ci ha fornito plurime testimonianze di queste degenerazioni. E poiché quel che avviene nel grande si verifica pure nel piccolo, ecco che anche il maschio, nella sua parte più oscura, può rivelarsi padre cattivo, arrogante, violento e crudele.
Non può che essere giusto opporsi a tale deriva, contrastare gli eccessi. Ma da qualche tempo la lotta contro gli eccessi del maschile – almeno in Europa e negli Usa – ha favorito eccessi d’altro segno, tramutandosi in una tirannia del femminile perverso che richiede sacrifici di sangue: l’evirazione dell’uomo e il parricidio.
Senza padre non ci sono leggi, limiti e confini. Tutti si scioglie e si liquefa. E in questo mare tempestoso, negli abissi di Cibele, si finisce per annegare.