Per matrimonio forzato si intende quando almeno uno dei coniugi è costretto a sposarsi (con rito civile o con una cerimonia religiosa) attraverso minacce, ricatti o violenza, e quando viene proibito con la forza il diritto al divorzio.
I matrimoni forzati per lo più per motivi di interesse economico o semplicemente per ignoranza e povertà sono purtroppo diffusi in molte parti del mondo.
In diversi Paesi del Corno d’Africa o dell’ Africa subsahariana circa il 20% delle ragazze si sposa prima dei 18 anni e nelle aree in cui sono le famiglie a scegliere lo sposo o la sposa i matrimoni forzati sono più diffusi.
Anche in Europa mancano dati su questo fenomeno contrastato da molte Associazioni laiche e religiose in nome della difesa della dignità umana. Ancora oggi, ad esempio nella comunità Rom o in alcune aree balcaniche questo problema sussiste come per molto tempo ha riguardato il nostro paese in generale e più a lungo il Meridione.
Tra i paesi nei quali il matrimonio forzato è abitualmente praticato vi sono il Madagascar, Malawi, Mauritania, Niger e in alcune aree rurali del Sudafrica, mentre esso permane come usanza radicata in alcune zone del Pakistan, ed è molto diffuso in Afghanistan, India, Iran, Nepal e Sri Lanka.
Esistono anche diversi casi nelle comunità di immigrati in Occidente. Oltre ai matrimoni forzati veri e propri c’è una zona grigia che comprende certi casi in cui per esempio una donna ma anche un uomo che si sposa senza nemmeno conoscere il partner per ottenere ad esempio il permesso di soggiorno o la donna anche europea che proviene da contesti di devianza o di violenza e si sposa per uscire dalla famiglia di origine.
Il matrimonio forzato è un fatto culturale reputato dai sapienti illecito e quindi non valido, sappiamo bene però come le usanze tribali spesso sovrastino la religione.
Secondo un hadith: La vergine non deve essere data in matrimonio fino a quando sia stato richiesto il suo permesso.” [Al-Bukhari, 5136 e Muslim, 1419]
Per quanto riguarda i musulmani europei, nel 2000 l’European Muslim Network lanciò la campagna Mano nella mano contro i matrimoni forzati nella quale si formava alla comprensione della distinzione tra norme tribali e precetti religiosi. Questa campagna ebbe il suo fulcro a Rotterdam dove ottenne il patrocinio del Comune.
Tariq Ramadan illustrando la campagna in un articolo apparso su Il Riformista affermò tra l’altro: “La questione è delicata: bisogna condannare i matrimoni forzati e le soluzioni richiedono tempo, ascolto, empatia e riconoscere l’amore dei genitori senza accettare l’usurpazione del diritto dei figli.” Ed è insieme, sommando le nostre risorse e le nostre competenze, in nome dei nostri valori comuni che vinceremo questa lotta”
Quindi, non solo non c’è alcuna relazione tra la religione ed i matrimoni forzati, ma la giurisprudenza islamica non ne riconosce proprio la validità.
Secondo un hadith il matrimonio forzato è nullo perché il consenso dei due coniugi è un requisito fondamentale per la validità sharaitica del matrimonio stesso.
Nelle Fonti il matrimonio è un legame sancito liberamente dai coniugi e fondato sul reciproco “amore” (Mawadda) e sulla “misericordia” (Rahmā), da intendere anche come compassione o tenerezza reciproca che Dio ispira agli sposi (Sūrah Ar-Rūm.)
L’Associazione degli Imam e Guide Religiose ha emanato qualche anno fa una fatwa in italiano e arabo pubblicata sul sito dell’Ucoii in cui si condannano i matrimoni forzati con ampi riferimenti alle Fonti Tradizionali.
Nel 2021 in occasione della triste vicenda dell omicidio della povera Saman Abbas l’Ucoii di concerto con l’Associazione degli Imam e Guide religiose che emise una fatwa di condanna dei matrimoni forzati aderì immediatamente ad iniziative di sostegno contro i matrimoni imposti e si dichiarò parte civile nel processo a tutt’oggi in corso contro gli assassini della giovane pachistana.
Come Ucoii – spiega il presidente Yassine Lafram – abbiamo voluto esprimerci in maniera netta, attraverso uno strumento religioso e di una certa rilevanza, cioè una fatwa. Non vogliamo lasciare margine ad ambiguità, questa fatwa arriva per dire no ai matrimoni forzati”.
Si è trattato di una decisione assolutamente inedita in Italia, ma che fa parte di una battaglia iniziata dall’European Muslim Network diversi anni fa.
Il fine della fatwa in un Paese dove la comunità ha solo il mezzo dell’ educazione e della buona parola è sgomberare il campo dall’equivoco alimentato dai media e da alcuni politici che “la religione in qualche modo possa giustificare comportamenti lesivi dei diritti delle persone”, ed eliminare anche l’idea di una possibile “commistione omertosa che per alcuni potrebbe esserci fra la religione islamica e questi atti tribali che nulla hanno a che vedere con la nostra fede religiosa”.
Sempre a proposito dell’iniziativa l’Unione delle Comunità Islamiche Italiane afferma: “nasce dalla volontà di ribadire e sensibilizzare su una pratica tribale che non può trovare alcuna giustificazione religiosa, per rafforzare l’impegno delle comunità nel contrasto e nella prevenzione di atti tribali che oltre essere contrari all’ordinamento giuridico del nostro Paese, vanno in pieno contrasto anche con la dottrina islamica”
Tuttavia secondo chi lavora sul campo non si deve nemmeno pensare che tutti questi genitori che impongono il matrimonio ai figli siano dei mostri ed è necessario comprendere e studiare meglio questo fenomeno.
Secondo Aidos, una delle Associazioni più importanti che si occupa dei diritti delle donne, il fenomeno dei matrimoni forzati e precoci va analizzato e studiato meglio: “Non si può intervenire con degli schemi che sono puramente di punizione e di inasprimento delle pene”, spiega Maria Grazia Panunzi, presidente Aidos.
Secondo Panunzi infatti: “È un atteggiamento che non porta a nulla, perché va a incidere sul tessuto familiare, si va a togliere la genitorialità e a inserire la bambina o la ragazza in un altro contesto, che vive così altre situazioni di disagio. In alcuni contesti, come nei casi di conflitti, le ragioni date per i matrimoni precoci sono di protezione delle figlie dalla violenza. Ecco perché è necessario uno studio approfondito del fenomeno. C’è bisogno di un approccio multidisciplinare e interculturale, perché spesso non c’è l’intento di far male alle proprie ragazze. Non può essere solo la legge, che è comunque un aiuto, a dettare la strategia per risolvere questo problema. Inasprire il reato può vuol dire non farlo emergere’’