Nel silenzio del suo rifugio, Abqar era avvolto nel tepore del riposo, quando l’eco vibrante intonò, “Allahu akbar, Allahu akbar!”, come un richiamo eterno che attraversava il velo dell’esistenza, del visibile, dell’invisibile, e del tempo. Il Muezzin chiamò alla preghiera del fajr mentre neanche il sole si era levato. Il giovane strappò il suo corpo dal letto e dalle dolci coperte che lo avvolgevano come una madre che tiene fra le sue braccia il suo piccolo. Era il momento di ringraziare il Rahman.
Il cavaliere si purificò e nella semi-ombra della moschea, dove la luce della lampada ad olio nella nicchia incontrava l’ombra della notte, si prosternò e pregò il Creatore.
Il giovane pregò per ciò di cui ogni cavaliere in viaggio ha bisogno: una chiara destinazione, un viaggio sicuro e pacifico, ed un destriero affidabile fino alla fine.
Sollevatosi dalla preghiera, Abqar notò lo sguardo attento di un uomo appoggiato su uno dei pilastri della moschea. L’uomo posò la mano destra sul petto, fece un lieve inchino dalla distanza, un cenno di sorriso e mosse le labbra in modo visibile per convenire l’augurio di pace senza alzare la voce e disturbare i fedeli. L’uomo poi si alzò e si diresse fuori dalla moschea. Un buon segno, pensò Abqar.
Uscito dalla moschea, Abqar si diresse verso le stalle del Haaj che le due guardie gli avevano indicato il giorno precedente. Dopo aver bussato alla porta ad augurato la pace un giovanotto aprì e diede il benvenuto al cavaliere.
“Salam alaykum! Sono Mut’im, l’allievo del Haaj. Abbiamo aperto da poco marhaban.”
Mentre Abqar seguiva l’apprendista, i loro passi li portarono attraverso la dimora, che si svelava come un racconto in ogni angolo. Al piano superiore, le stanze del Haaj respiravano storie di viaggi e pellegrinaggi lontani. L’ingresso era ornato da un banco finemente intagliato, pronto a salutare con calore ogni ospite che varcasse la soglia. Più in fondo, la sezione si apriva in un ampio cortile: da un lato, l’intimo rifugio dell’apprendista e delle anime in visita, dall’altro, le stalle pulsanti di vita, dove i cavalli nitriscono e gli strumenti del quotidiano riposano, testimonianza dell’incessante danza tra l’individuo ed il suo destriero.
“Il Haaj sarà qui fra poco. Lo vado ad informare del tuo arrivo.” Disse Mut’im offrendo dei datteri e del latte ad Abqar. Il giovane cavaliere preparò mente e cuore e riordinò le idee per l’incontro con il Haaj, con colui che un tempo era conosciuto col nome di Sari’a Al-Andalusiyy, il cavaliere più temuto del califfato che Abqar dopo non poche peripezie riuscì a scovare in questa medina nel deserto.
Mentre il suono del respiro di Abqar nella stanza riecheggiava, quello del suo spirito riecheggiava nella sua mente e nei meandri dei suoi ricordi. Egli sentiva ancora l’eco delle risate del villaggio in cui vide per la prima volta la luce del giorno, e il sussurro del vento tra i monti dove, sotto la guida del suo mentore, aveva forgiato la sua destrezza nell’arte della spada. Vi erano anche i ricordi delle oasi come veri miraggi, luoghi di frescura e rigenerazione interiore ed esteriore dove lui e il suo destriero si abbeveravano grati, raccogliendo le forze per la prossima battaglia nel caldo implacabile del deserto.
Ma nonostante le sue abilità, nel cuore di Abqar ardeva un fuoco inquieto. Non desiderava soltanto essere un cavaliere tra gli altri, voleva ascendere alle vette dell’eccellenza. Ihsan, l’arte della perfezione, era il faro che guidava la sua anima, il Sirio celeste che illuminava il suo cammino in ogni sfida. Era una sete insaziabile di superare se stesso, di raggiungere la più pura e nobile versione del guerriero che era dentro di lui. “Uno vero spadaccino lo è anche senza spada. Un falso spadaccino è dominato dalla spada” gli disse una volta il suo mentore fra i monti.
“Mu’allim,” rispose il curioso studente, “ciò è valido anche per le altre arti? Per l’arciere, il cavaliere ed il fabbro?”
“Certo,” rispose il Mu’allim, “esse sono vie per raggiungere l’ihsan e solo quando il segreto di queste arti si libera dai limiti delle arti stesse la Vera Arte si manifesta.”
Lo studente si coprì maggiormente dopo che una folata di vento più fredda gli carezzò il volto perplesso “non mi è molto chiaro…”
“Lo sarà, in sha Allah.” Così rispose il maestro battendo tre volte con dolcezza sul petto di Abqar, che per un attimo sentì che quei tre tocchi sostituirono i battiti del suo cuore. Nelle parole del maestro, sentì il giovane, vi era ciò che avrebbe realizzato lo scopo della sua vita terrena.
“Haaji Sari’a, abbiamo un ospite.” Disse il giovane apprendista al suo maestro.
“BarakAllah fik Mu’tim,” rispose il cavaliere, “gli hai offerto qualcosa? È arrivato così presto e non credo abbia mangiato a meno che non sia a digiuno.”
“Certo,” rispose Mut’im, “quanto a me oggi digiunerò.”
“E dimmi, caro Mut’im,” chiese Sari’a scrutando l’allievo mentre metteva il soprabito e si dirigeva verso l’entrata in cui il giovane ospite attendeva, “come vedi lo stato del cavallo splendido guidato dal bandito?”
“Come disse Al-Rasul, sallAllah ‘alaihy wa sallim,” rispose prontamente l’allievo come se questo tipo di domande fossero all’ordine del giorno, “come il basilico che ha un buon profumo ma il cui gusto è amaro.”
“Ahsant ya ghulam e che Allah accetti i tuoi digiuni.” Rispose il Haaj dirigendosi verso la stanza in cui Abqar si trovava.
Il Haaj entrò nella stanza in cui il giovane si trovava.
“Salam alaykum Haaj.” Disse il giovane cavaliere alzandosi in segno di rispetto. Abqar si ritrovò davanti l’uomo che incontrò alla moschea e che gli augurò la pace. Un buon segno, pensò di nuovo sorridendo.
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