L’indice sfiora lo schermo, una piccola icona muta in intero quadro e l’incantesimo ha inizio: una ragazza balla, apre le danze a un’infinità di ragazze e ragazzi che semplicemente ballano o cantano finché non appare sulla scena un panino, poi una bibita e altri cibi ancora; allora le persone mangiano, parlano di cibi, sono ossessionati dal cibo, appaiono obesi fieri, anoressiche orgogliose, ginnaste; si fa sport, quelli comuni e quelli improbabili, celebrità e nullità, uomini qualunque, poi uno sportivo diventato militare, da un agonismo all’altro, dalla competizione alla guerra, i video si fanno cupi, divise militari e armi, la quotidianità trasformata in guerra, la guerra mutata in cosa quotidiana e poi… TikTok è ormai animato, tic toc e i minuti, le ore passano come secondi mentre i video si generano uno dall’altro, obbedendo alla magia meccanica di una fiaba senza storia.
Il dito non si stanca, si limita a fare su e giù, lo sguardo non si stacca, sprofonda nello spettacolo di tanti minuscoli io che prendono vita per scivolare, scorrere, inseguendo la scia di un’infinita catena associativa. TikTok scandisce l’orologio del caso, su cui le immagini tessono un presente fatto di infiniti sì, racchiusi in un unico principio: le immagini devono generarsi da altre immagini.
Cosa, chi o perché? Domande senza importanza, a contare è soltanto il movimento costante, la catena associativa. TikTok è un’immensa seduta psicoanalitica. Il paziente si accomoda sul divano di una psicoanalisi esteriore, la catena delle libere associazioni ha inizio, l’obiettivo non è far emergere un sepolto mondo esteriore, ma vuotare la superficie di qualsiasi traccia interiore, lasciandoti incatenato alla replicazione infinita di tanti io senza origine, senza verità.
Gli spettatori, incatenati al loro dito che scorre su e giù, disegnano man mano la personale caverna platonica, col solo desiderio di non arrestare la sorgente d’immagini. E’ la logica del divertimento assoluto, della pura distrazione che provoca un senso di beatitudine assoluta, un’ebetudine atemporale così vicina alle intuizioni geniali di Foster Wallace nel suo romanzo Infinite Jest (“Scherzo infinito”), in cui i diversi protagonisti si mettono sulle tracce di un misterioso video che pare contenere l’essenza dell’intrattenimento perfetto, assoluto, capace di lobotomizzare e uccidere coloro che lo guardano. Con una piccola differenza però: qui, nel mondo di TikTok, non sono le specifiche immagini a fare la differenza, ma l’immagine in sé, finalmente depurata da qualunque tentativo di conversione in parole e simboli.
L’immagine per l’immagine: perfetta, assoluta, pura, col potere perverso di chi non osa più pervertirsi (pervertere, mutare) in altro da sé. Immagine dopo immagine, secondo dopo secondo, l’occhio assiste alla propria personale mitologia, senza doverla costruire. Perché non esistono passato o futuro ma soltanto un eterno presente senza desiderio, capace di generare la rappresentazione del mondo per il solo fatto di vederlo.
TikTok ci spaventa e ci scandalizziamo al pensiero che un nostro battito di ciglia sia registrato da un’intelligenza invisibile capace di trasformarlo in emozione, poi in gusto e infine in carattere; che il nostro carattere quindi sia ridotto a un insieme di tratti riassumibili in un profilo ideale per il marketing. Ci scandalizziamo dei cosiddetti Big Data e di ricevere in dono la formula di ciò che ci piace e ci interessa, realizzando il sogno di una scelta inconscia, implicita.
Ci scandalizziamo perché una tale catena di (apparentemente) libere associazioni rischia di incatenare i fragili (in particolare) e i giovani (in generale) alle loro debolezze, ai loro piccoli piaceri masochistici, cosicché bulimici, anoressiche, autolesionisti ed emarginati rancorosi d’ogni tipo possano trovare conferma e conforto in un universo di segni d’appartenenza. Infatti è facile, troppo facile mettere in scena il proprio dolore, ché gli altri fanno lo stesso e allora non ci si sente più soli: nel mondo digitale abita sempre una comunità che salda il senso d’ogni perversione.
Ci scandalizziamo allora dell’aumento di patologie connesse all’uso dei social perché gli occhi, una volta staccati dall’universo dello schermo e ritornati al mondo di tutti i giorni, non sanno più guardare e finiscono con l’invalidare sé e gli altri. Scandalizziamoci certo ma il moralismo adulto non deve dimenticare che la dipendenza è iscritta nei geni di TikTok e della sua progenie.
È il potere stesso dell’immagine, mediante cui ognuno è libero di diventare proprietario della propria caverna privata, in cui uno strano dio, uscito dalla matematica e dal costume, decide di proiettare immagini infinite, capaci di generare altre immagini senza passare per il pensiero oppure la semplice attesa. Per questo Tiktok sostituisce il desiderio con la presenza, la curiosità con la dipendenza, il corpo con l’immagine, la parola con l’istante. Impossibile contrastarlo, è una battaglia vana, persa in partenza contro la potenza di chi non ha storia né trama.
Ma chi è questo strano dio uscito dalla matematica e dal costume? Invisibile ma capace di generare il visibile, lascia apparire alcune cose al posto di altre, può determinare successi o disgrazie, è principio, pura logica e quindi indivisibile: Dio, il caso o l’algoritmo? Non fa differenza, l’importante è il conforto di sapere che le cose si svelano in un certo modo perché generate da un principio che le partorisce, le ordina e le presenta così come sono. È comodo non dover dipendere da un uomo che ti guida e ti obbliga a seguire il suo filo logico e temporale; addio stampa, televisione e vecchi social così umani e gerarchici. Vecchi media che osavano ordinare le rappresentazioni, le notizie e le storie valutando deliberatamente gli effetti sui fruitori. Tutt’altra cosa un motore immobile, al di sopra degli individui, capace di scegliere e dettare la direzione. Ma non un vecchio dio così vincolante e assente alla percezione, meglio un algoritmo, fuoriuscito dall’unica conoscenza umana perfetta: la matematica.
Da qui ha origine l’enorme vantaggio dell’algoritmo, che è l’arbitro imparziale (o quasi) che salva il libero arbitrio, anche se lasciato a un semplice dito che scorre e non indica più. Allo stesso tempo l’algoritmo non esclude del tutto il merito o la colpa, perché la qualità e soprattutto la quantità delle azioni continua a contare. Il caso infatti non agisce al cento per cento, un po’ di destino gli soffia sulle spalle. Se cerco o condivido una serie di video, la probabilità di vederne altri simili aumenta senza però diventare certezza, perché c’è sempre un dettaglio che sfugge all’attenzione, capace di invertire il corso e la catena delle associazioni.
La ridondanza resta il principio chiave anche se l’imprevedibile non è per definizione escluso nel fantastico mondo di TikTok. Proprio dalla ridondanza nasce l’assuefazione alla vita costretta in immagini, da cui hanno origine due effetti: abitudine o nausea. Per questo la guerra, così come ogni altra forma di malattia, perde tragicità, si normalizza oppure finisce con lo stancare l’attenzione (la maggior parte dell’opinione pubblica italiana è oramai indifferente al conflitto ucraino). Ebbene lo stesso identico principio che muove ogni altro media…… ma soltanto in apparenza, perché da una parte c’è il racconto giornalistico e telegiornalistico degli eventi; dall’altra c’è il videoracconto interno agli eventi stessi.
L’unico vero narratore di TikTok resta l’algoritmo, che si limita ad ingrassare le idee senza poterle realmente propagare. E un’obesità non vale una propaganda, infatti i brevi video restano centrali nella propaganda attuale (russa o ucraina) solo perché trasferiti e utilizzati su altri media narranti; se i video si limitassero a sgorgare uno dall’altro, neutralizzerebbero ogni possibilità narrativa e quindi ogni sorta di propaganda. Perché TikTok può soltanto replicarsi fino alla totale e perfetta indifferenziazione di tanti piccoli atti che tutti insieme non fanno un’attualità.