MEE analizza l’eredità dell’intellettuale palestinese nel 20° anniversario dalla morte.
Edward Said, il famoso accademico, scrittore, pensatore e attivista palestinese-americano, morì 20 anni fa, il 25 settembre 2003.
Nato nel 1935 da genitori cristiano-palestinesi a Gerusalemme, che allora faceva ancora parte della Palestina mandataria governata dagli inglesi, i primi anni della sua vita sono stati caratterizzati dalle privazioni e dagli sconvolgimenti.
Trascorse i primi anni tra Gerusalemme e il Cairo, stabilendosi definitivamente in quest’ultima città dopo la Nakba (catastrofe), la pulizia etnica della Palestina avvenuta nel 1948 per far posto alla creazione di Israele.
In seguito, si trasferì in varie città degli Stati Uniti, studiando a Princeton e Harvard, prima di entrare nella facoltà della Columbia University nel 1963 – dove è rimasto per quarant’anni.
Ha scritto numerosi libri sulla musica, la rappresentazione mediatica, la letteratura e il colonialismo, tra cui Orientalismo, considerato uno dei testi più influenti del XX secolo.
Ha scritto molto anche sulla Palestina e ha avuto una breve carriera nella politica e nella diplomazia palestinese.
Per tutta la vita è stato criticato e vilipeso, anche dai leader palestinesi, che per un breve periodo hanno censurato i suoi scritti a seguito delle critiche che denunciavano le loro mancanze.
Morì di leucemia all’età di 67 anni, ma la sua eredità continua a vivere ancora dopo vent’anni. Middle East Eye ripercorre la sua vita e i suoi scritti, ispirandosi a sette sue citazioni:
Lingua araba
“Non ho mai saputo quale lingua ho iniziato a parlare per prima, l’arabo o l’inglese, o quale fosse davvero la mia senza ombra di dubbio”.
L’educazione di Said è stata caratterizzata da identità, lingue e culture in competizione e sovrapposte. Egli ha esplorato a lungo questi temi nel suo libro di memorie Out of Place, pubblicato per la prima volta nel 1999.
In esso parla di come il suo nome racchiuda questa sensazione di dualità.
“Mi ci sono voluti circa cinquant’anni per abituarmi o, più esattamente, per sentirmi meno a disagio, con Edward, un nome scioccamente inglese legato obbligatoriamente al nome di famiglia che è inconfondibilmente arabo, Said”, ha scritto.
Said trascorse gli anni della formazione in scuole pubbliche di stampo britannico, a Gerusalemme e al Cairo, mentre trascorreva l’estate a Dhour el-Choueir, una città montuosa del Libano. In seguito, fu mandato in una scuola privata del Massachusetts.
A proposito dell’inglese e dell’arabo, Said ha scritto: “Le due lingue sono sempre state insieme nella mia vita, l’una risuonando nell’altra, a volte in modo ironico, a volte in modo nostalgico, più spesso ciascuna correggendo e commentando l’altra. Ognuna potrebbe sembrare decisamente la mia prima lingua, ma nessuna delle due lo è”.
Oltre a parlare correntemente l’arabo, l’inglese e il francese, Said conosceva anche lo spagnolo, il tedesco, l’italiano e il latino.
La causa palestinese
“Fino alla guerra del giugno 1967, ero completamente preso dalla mia vita, quella di un giovane professore di inglese”.
Sebbene Said venga universalmente ricordato per le sue opinioni sulla Palestina, non è sempre stato un personaggio chiaro e diretto per quel che riguarda la politica e i diritti umani.
Iniziò la sua carriera accademica concentrandosi esclusivamente sulle teorie letterarie. Ma nel 1967, la guerra in Medio Oriente cambiò le cose.
Durante la guerra, Israele trionfò contro Siria, Egitto e Giordania, occupando la penisola del Sinai, le alture del Golan, la Striscia di Gaza, la Cisgiordania e Gerusalemme Est.
“A partire dal 1968, ho iniziato a pensare, scrivere e viaggiare come qualcuno che si sentiva direttamente coinvolto nella rinascita della vita e della politica palestinese”, ha affermato.
Ha raccontato che, dopo la guerra, trovarsi a New York è stata “probabilmente l’esperienza più sconvolgente della mia vita”.
“Ero circondato da ogni parte da persone che si identificavano con i vincitori israeliani”, aveva detto Said.
Nel suo libro di memorie, ha descritto l’impatto personale di sua zia Nabiha che, al Cairo, ha dedicato tutta la sua vita ad aiutare i rifugiati palestinesi, dopo lo sfollamento del 1948.
Ma soltanto due decenni dopo, e a seguito della guerra del 1967, Said fu spronato a diventare uno dei più famosi sostenitori della causa palestinese.
Ha scritto diversi libri sulla sua patria, tra cui La questione della Palestina (1979), La politica dell’esproprio (1994) e La fine del processo di pace: Oslo e dopo (2000).
La musica
“Lo studio della musica è uno dei modi migliori per conoscere la natura umana”.
Al di fuori dei suoi interessi politici e letterari, Said era un pianista e un amante della musica classica.
Nella citazione qui sopra, tratta dal suo libro Parallels & Paradoxes: Explorations in Music and Society, Said si lamentava della mancanza di educazione musicale nei programmi scolastici.
“Per suonare bene la musica, bisogna trovare un equilibrio tra la testa, il cuore e lo stomaco”, ha detto.
“E se uno dei tre non c’è o c’è in dose troppo massiccia, non si può usare. Quale modo migliore della musica per mostrare a un bambino come comportarsi da essere umano?”.
Il libro è stato scritto nel 2002 insieme al suo amico Daniel Barenboim, importante direttore d’orchestra israeliano, con il quale Said ha fondato la West-Eastern Divan Orchestra.
L’orchestra è composta da musicisti israeliani e arabi, fatto che è valso a Said critiche tra i palestinesi che sostengono il boicottaggio culturale contro Israele.
La padronanza di Said al pianoforte è stata descritta come “vicina al livello concertistico”. Ha scritto anche quattro libri sulla musica ed è stato per diversi anni critico musicale della rivista The Nation.
Definizione di terrorismo
“La definizione di terrorismo deve essere più precisa, in modo da poter discriminare, ad esempio, tra ciò che i palestinesi stanno facendo per combattere l’occupazione militare israeliana e il tipo di terrorismo che ha portato all’attentato al World Trade Center”.
Parlando pochi mesi dopo gli attentati dell’11 settembre, Said aveva messo in discussione la definizione del termine “terrorismo”.
Aveva fatto l’esempio teorico di un giovane che vive nella Gaza assediata “che si avvolge con la dinamite e poi si getta contro una folla di israeliani”.
“Questo può essere inteso come l’atto di una persona veramente disperata che cerca di liberarsi da condizioni imposte ingiustamente. Non è una cosa che condivido, ma almeno si può capire”, osservava Said.
Al contrario, affermava, “Le persone che hanno perpetrato il terrorismo degli attentati al World Trade Center e al Pentagono sono qualcosa di diverso, perché queste persone ovviamente non erano disperate o poveri rifugiati”.
Said ha a lungo rifiutato l’uso della violenza, ma ha spesso dichiarato che comprendeva le motivazioni del suo utilizzo.
Nel 2000, un Said malato terminale fu fotografato mentre lanciava una pietra dal Libano verso il confine israeliano.
I suoi detrattori usarono questa immagine come prova del fatto che Said fosse “un professore del terrore”, ma egli ribadì che si trattava di un gesto simbolico dopo la fine dell’occupazione del Libano meridionale da parte di Israele. La Columbia all’epoca chiese la sua censura, ma l’università non prese alcun provvedimento.
Said è stato spesso accusato di estremismo e terrorismo e l’FBI ha redatto un dossier di 238 pagine su di lui. Una volta è stato definito addirittura “profeta della violenza politica”.
Oltre al presidente della Columbia University, egli era l’unico membro del personale ad avere un segnalatore acustico collegato direttamente alla sicurezza del campus e finestre antiproiettile nel suo ufficio.
Rifiuto dell’accordo di Oslo
“Io sono per la pace. E sono per una pace negoziata. Ma questo accordo non è una pace giusta”.
Nel 1977, Said fu eletto nel Consiglio Nazionale Palestinese (PNC) come membro indipendente. Non era allineato con nessuna fazione, nemmeno con l’Organizzazione per la Liberazione della Palestina (OLP) dell’allora leader Yasser Arafat.
Sosteneva la soluzione dei due Stati, una politica che il PNC adottò alla fine degli anni Ottanta.
Nel 1988, Said fu inviato da Arafat a negoziare con l’allora Segretario di Stato americano George Shultz per conto dei palestinesi.
Ma mentre erano in corso i negoziati per quelli che nel 1993 sarebbero stati chiamati gli Accordi di Oslo, Said divenne sempre più amareggiato. Si dimise dal PNC nel 1991.
Riteneva che i leader palestinesi avessero fatto troppe concessioni e non fossero riusciti a negoziare per uno Stato palestinese indipendente.
Riteneva inoltre che Arafat non avesse sostenuto il diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi sfollati nel 1948 e avesse completamente ignorato la minaccia degli insediamenti israeliani illegali costruiti sui territori palestinesi.
Nonostante sia stato uno dei palestinesi più famosi della sua epoca, è divenuto spesso oggetto di censura e di critiche da parte dei leader che un tempo rappresentava.
“Quando le attuali autorità palestinesi incarcerano i direttori dei giornali e torturano i prigionieri, non fanno altro che il lavoro sporco di Israele”, aveva dichiarato Said al New York Times nel 1996.
“Israele e i governi occidentali vogliono che Arafat reprima alcuni elementi della sua società. Vogliono che sia un dittatore. Il meccanismo dell’accordo di pace lo chiarisce e palesa perfettamente”.
“Io sono per la pace. E sono per una pace negoziata. Ma questo accordo non è una pace giusta”.
Soluzione a uno Stato
“Non vedo altro modo se non quello di iniziare a parlare della condivisione della terra che ci ha uniti, e di condividerla in modo veramente democratico, con uguali diritti per ogni cittadino”.
Sebbene alla fine degli anni ’80 avesse inizialmente sostenuto la soluzione dei due Stati, nel 1999 Said aveva ritenuto tale posizione “impraticabile”.
In seguito agli accordi di Oslo, aveva notato l’aumento degli insediamenti israeliani costruiti sulla terra palestinese e la crescente segregazione delle società.
“Israele ha costruito un sistema di ‘tangenziali’ progettato per aggirare le città e i villaggi palestinesi, collegando gli insediamenti ed eliminando gli arabi”, scriveva in una rubrica apparsa sul New York Times.
“Ma l’area della Palestina storica è così piccola e gli israeliani e i palestinesi sono così strettamente legati, nonostante le loro disuguaglianze e antipatie, che una separazione netta semplicemente non può avvenire o funzionare”.
E concludeva che l’unica via d’uscita sarebbe stata una “soluzione a uno Stato”, in cui tutti i cittadini abbiano uguali diritti.
“Non ci può essere riconciliazione a meno che entrambi i popoli, due comunità sofferenti, non decidano che la loro esistenza è un fatto secolare e che deve essere affrontato come tale”.
Affermava che sia la nozione di Israele come terra per il popolo ebraico che quella di Palestina come terra araba “devono essere ridotte in termini di dimensioni ed esclusività”.
Orientalismo
“L’orientalista possiede la chiave per l’autoaffermazione e il controllo dell’Occidente sull’Oriente esotico e misterioso”.
Il libro più influente di Said è senza dubbio Orientalismo, pubblicato per la prima volta nel 1978.
In esso, l’accademico palestinese spiegava come gli occidentali, o “orientalisti”, fin dall’invasione napoleonica dell’Egitto nel 1798, perpetuassero la visione del Medio Oriente, del Nord Africa e dell’Asia, o “Oriente”, come inferiori, deboli e barbari.
Secondo Said, tali idee, diffuse da artisti, pensatori e scienziati, creano una visione del mondo stereotipata e talvolta razzista, che può essere utilizzata per giustificare l’imperialismo e il colonialismo.
È considerato uno dei testi fondamentali per lo studio del post-colonialismo e un racconto dell’Illuminismo europeo visto attraverso una nuova lente.
Il libro è ancora presente nei programmi di studio di tutto il mondo e ha proiettato Said tra i principali pensatori della sua generazione. È stato tradotto in almeno 35 lingue.
Ha suscitato critiche ed è stato descritto come anti-occidentale, definizioni che Said ha affrontato in due versioni successive del libro.
Traduzione di Aisha Tiziana Bravi da originale pubblicato da Middle East Eye