Con il governo Meloni la Tunisia è entrata nei radar dei media italiani, a segnalare che forse sta riemergendo una qualche politica estera italiana assente da decenni (a parte la breve comparsa di Emma Bonino).
E’ ragionevole che tale politica abbia un focus sulla Tunisia, il nostro più immediato vicino di casa, a cui ci legano vicende storiche plurisecolari. Peccato però che essa sia appiattita – malgrado le apparenze – su una “dottrina mediterranea” che accomuna l’Europa tutta: tra governi di destra e di sinistra, infatti, cambia il linguaggio, non la sostanza. Essa si basa sui seguenti punti.
1.Interesse dell’Europa è includere il più possibile entro i propri confini i paesi ad Est e allontanarne il più possibile quelli a Sud. Se ne erano accorti molti studiosi tunisini già ai tempi di Ben Ali e dopo la rivoluzione poco è cambiato.
2.Problema principale dell’Ue sono i flussi migratori dall’Africa sub sahariana. Convincere i recalcitranti paesi del Nordafrica – con il bastone e la carota, i respingimenti e i finanziamenti – ad assumersi questo ruolo è il fulcro della politica europea nel Mediterraneo di cui la Tunisia, per la sua posizione geopolitica, rappresenta uno snodo strategico.
3.La Tunisia, a differenza dei suoi vicini, non dispone di importanti risorse naturali (a parte i fosfati). Ciò che può offrire all’Europa è un mercato per i suoi beni sia di consumo sia di lusso, un serbatoio di manodopera low cost per le sue imprese offshore, una meta di turismo mordi e fuggi e di insediamento pensionistico per il suo ceto medio grazie all’enorme apprezzamento dell’euro sul dinaro. Tutto ciò prescinde dal tipo di governo del paese.
4.E’ rilevante, ai fini della sicurezza e del controllo dei flussi migratori, la stabilità dei governi; che si tratti di governo autoritario o democratico è invece questione del tutto secondaria. L’Europa cercherà dunque di esercitare la sua influenza (che ogni tanto qualcuno la chiami ingerenza è fatto puramente propagandistico) in questa direzione.
5.Sono sottoposti ad una – ora tacita ora esplicita – conventio ad excludendum i soli governi con leadership di ispirazione islamica, a prescindere dai loro princìpi, valori, programmi, obiettivi e partner di coalizione.
La storia della Tunisia dall’Indipendenza ad oggi dimostra l’applicazione di questa dottrina. Il primo presidente, Bourguiba, è stato rimosso da un colpo di stato “morbido” con l’aiuto dei servizi italiani.
Il secondo, Ben Ali, è stato cacciato da una rivolta popolare. cui tanto le cancellerie europee quanto gli ambienti degli affari hanno accordato un provvisorio patrocinio. Che però è stato gradualmente ritirato fin da quando, nell’ottobre 2011, le prime elezioni democratiche del paese hanno dato la maggioranza relativa ad un movimento di ispirazione islamica, harakat Ennahdha.
Poco importa che a quelle prime elezioni abbiano fatto seguito dieci anni di transizione democratica in cui la Tunisia si è dotata di una nuova costituzione, pluralismo e pluripartitismo, elezioni regolari, parlamenti democratici, decentramento politico, alternanza di governo, libertà di espressione e associazione. Quando nel 2021, complici crisi economica e la crisi pandemica mondiali, un colpo di Stato ha portato al potere una figura improbabile di dittatore che in pochi mesi ha smantellato tutta l’impalcatura democratica appena eretta, l’Europa gli ha concesso una immediata apertura di credito.
Kais Saied offriva infatti all’Europa quello che la interessava: garanzie di stabilità (grazie all’abolizione dei partiti e il depotenziamento del parlamento), controllo delle frontiere (grazie all’appoggio dell’esercito), pace sociale (grazie al combinato disposto di propaganda capillare e repressione del dissenso). Senza il rischio di disordini sociali, l’aggravarsi delle condizioni economiche del paese già disastrose alla vigilia del colpo di Stato – anzi invocate a giustificazione del medesimo – non rappresentava un problema né per gli esportatori che si fanno pagare in valuta forte né per i consumatori europei che in valuta forte pagano.
Quanto all’eliminazione di ogni forma di opposizione, essa è stata fin dall’inizio ampiamente tollerata malgrado periodici ammonimenti verbali senza conseguenze. Tale atteggiamento è stato formalmente motivato dal presunto appoggio del “popolo” a Kais Saied ma sostanzialmente dal fatto che la forza principale di opposizione era rappresentata da un partito di ispirazione islamica, Ennahdha
In questo contesto, le vicende del prestito del Fmi e dei migranti subsahariani – sui quali il governo Meloni ha costruito la sua nascente politica estera – sono pure vicende di facciata. Sul piano economico, l’assenza di qualsivoglia strategia di Kais Saied e del suo staff, insieme alla strenua resistenza del sindacato Ugtt, ha innescato lo stop and go del negoziato con il Fmi che tuttora si trascina.
I negoziati per un prestito di 1,9 miliardi erano iniziati già prima del colpo di Stato e i termini di un possibile accordo lasciano poche alternative, tanto più che a fronte di un apparato pubblico ipertrofico e inefficiente, corrotto e clientelare, anche l’animo più anti-liberista trova qualche ragione nelle privatizzazioni e nei tagli ai sussidi. Comunque vada a finire si può prevedere che la Tunisia non farà default perché non è nell’interesse di nessuno degli stakeholders e poco importa che gli aiuti provengano dal Fmi o dai Brics come ultimamente si sta ventilando.
Sul piano politico, la gaffe di Kais Saied su migrazioni e sostituzione etnica ha minacciato di renderlo un partner impresentabile costringendo l’Europa ad una levata di scudi con successive schermaglie diplomatiche (“Inaccettabile razzismo!” – “Inaccettabile ingerenza!”).
Solo alla luce della dottrina mediterranea europea si può capire come mai due anni di repressione, ivi incluse carcerazioni arbitrarie di politici e giornalisti, deferimento di civili ai tribunali militari, negazione dei diritti della difesa non abbiano suscitato un decimo dell’indignazione – con relative sanzioni – che ha seguito l’estemporanea dichiarazione di Kais Saied in merito ad un complotto volto a sostituire la popolazione arabo-islamica con quella africana in Tunisia. Oggi, superata la crisi comunicativa dei migranti sub sahariani, già riprendono i negoziati economici con la Banca Mondiale.
Tutt’altro che di facciata, invece, è la mossa più recente del regime, l’arresto dell’ottantunenne Rachid Ghannouchi, presidente del parlamento tunisino e del partito di maggioranza Ennahdha – con modalità particolarmente odiose, pochi minuti prima della rottura serale del digiuno, e pochi giorni prima della festa dell’Aid al Fitr.
Con questa mossa un regime dal consenso in declino cala l’asso per ingraziarsi un ceto medio gretto e rancoroso, nostalgico di Ben Ali, che non ha mai digerito, con la vittoria elettorale del partito di ispirazione islamica, l’ascesa di strati sociali e leader politici a lungo perseguitati ed emarginati. Una mossa che i sostenitori di Kais Saied aspettavano dal giorno del colpo di Stato come mostrano le manifestazioni di giubilo via social che l’hanno seguita, tanto più che la quantità di fake news, accuse, e hate speech che hanno bersagliato Ennahdna e il suo leader sui social media in questi anni è pari soltanto alla completa assenza di riscontri penalmente rilevanti.
All’arresto di Ghannouchi e la sostanziale messa al bando di Ennahdha le istituzioni europee hanno reagito tiepidamente, i media con un silenzio assordante. E dal FTDES (Forum tunisino dei diritti economici e sociali), piccola e storica ong della sinistra, è partita la richiesta di non considerare più la Tunisia “paese di origine sicuro” e “porto sicuro” per migranti e naufraghi.
Qualora venisse accolta l’Italia dovrebbe smettere ogni forma di cooperazione con la Guardia costiera tunisina ed accogliere tutte le domande di asilo dei Tunisini che approdano sulle nostre coste. E’ proprio per esorcizzare tale scenario che a destra e sinistra si chiudono gli occhi, ci si tura il naso e si continua a sostenere che la Tunisia “resta comunque una democrazia” (Il Foglio), “l’unica democrazia sopravvissuta tra quelle uscite dalle primavere arabe” (L’Avvenire), in omaggio alla dottrina europea del “niente governi islamici tra i vicini”. Governi islamici democratici s’intende – ché con quelli dispotici un accordo si trova sempre.