La storia del conflitto palestinese-israeliano è semplice al contrario quanto alcuni affermano per mistificare ed uno degli aspetti di questa semplicità è l’incontestabile pulizia etnica della Palestina. Ilan Pappe, storico ebreo, nel suo celebre testo “La Pulizia Etnica della Palestina” ha documentato in maniera irrefutabile l’apartheid israeliano e la sistematica distruzione dei villaggi palestinesi. Nonostante molte voci critichino sostenendo che la provocazione iniziale venne dagli arabi nel contesto della guerra arabo-israeliana nel ’48, Pappe dimostra che la pulizia etnica era già in corso prima della guerra arabo-israeliana, con dati schiaccianti: 800.000 sfollati palestinesi e 500 villaggi distrutti. Il modus operandi era brutale, spesso ricorrendo a fucilazioni, stupri e persino all’infestazione dell’acqua con germi di tifo da parte della Hagana, l’organizzazione paramilitare sionista.
Contrariamente alla narrazione dominante, i palestinesi non sono semplici pedine nelle mani di Hamas o Hezbollah. Esiste un forte consenso e una salda volontà popolare tra i palestinesi. L’idea che Israele sia un residuo del colonialismo del secolo scorso è sempre più evidente, e la sua esistenza, agli occhi di molti, rappresenta un’anomalia. Organizzazioni autorevoli come Amnesty International e l’ONU hanno denunciato un regime di apartheid. E il cuore della questione? La lotta dei palestinesi, che si rifiutano di subire in silenzio.
Ci sono storie che si perdono nelle pagine dei giornali o che vengono distortamente rappresentate. Il caso di Muhammad Tamimi, un bambino di due anni, ucciso con una pallottola alla testa, strappato dalle braccia del padre durante una protesta pacifica, è emblematico. Nel 2022, si è registrato un numero record di morti civili, superando persino le vittime della seconda intifada, e il 2023, non ancora concluso, promette numeri ancor più tragici ed ancora di più dopo l’inizio del recente conflitto.
La rappresentazione mediatica è spesso distorta e, come suggerito, Orwelliana. Molti media mainstream sembrano voler mascherare la brutale risposta israeliana, concentrandosi più sui miliziani che sui civili inermi. Questo atteggiamento ha portato l’ambasciatore palestinese nel Regno Unito a subire pressioni in interviste, costretto a condannare Hamas mentre il suo popolo veniva massacrato e mentre i rappresentati israeliani in diretta non venivano contestati in alcunché.
Ma il contesto è essenziale. È da notare, ad esempio, che Hamas ha accettato l’idea di uno Stato della Palestina con i confini del 1967, soluzione la cui unica colpa è quella di essere troppo equa per le ambizioni colonialiste israeliane. E mentre molte voci criticano il sostegno a organizzazioni come Hamas oggi a capo della resistenza amata palestinese, è importante ricordare di figure storiche come Enrico Mattei (a cui la Meloni ha dedicato il Piano Mattei – per l’appunto – per l’Africa) ed il suo supporto politico ed economico per il FLN algerino, che adottò fra i suoi metodi (a torto) anche il terrorismo contro i coloni non-combattenti facendo saltare in aria bar e ristoranti. È cruciale differenziare tra un terrorismo senza causa e una resistenza basata su sofferenze profonde e ingiustizie strutturali che possono sfociare in gesti da denunciare – senza se e senza ma – ma che sono dovuti a ragioni strutturali di fondo che nel caso odierno non possono che essere attribuiti all’oppressione dei palestinesi perpetrata dal regime apartheid sionista.
Il conflitto tra Israele e Palestina oggi ha raggiunta una brutalità ed una polarizzazione inaudita, ma una cosa è chiara: la sofferenza del popolo palestinese merita di essere ascoltata, compresa e, soprattutto, rispettata.