L’intervento armato di Hamas oltre i confini della “Striscia di Gaza” porta con sé un brutale richiamo al potere delle parole. Perché se per anni Israele ha potuto impunemente cacciare un popolo dalla propria terra e dalle proprie case, opprimerlo, umiliarlo e perseguire a tutti gli effetti una pulizia etnica è stato anche perché il sionismo ed i suoi sostenitori hanno saputo imporre l’uso di certe parole e cancellarne altre. Da qui è discesa una narrativa unica ed omologata in cui tutti sono rimasti invischiati. Come insegna Luhman, quando i media impongono un “tema” non importa poi che all’interno di esso si confrontino posizioni diverse perché ogni possibile tema diverso è già stato eliminato in partenza. Cerchiamo allora pazientemente di smantellare un complesso di parole impropriamente usate a sostegno del tema “Israele”, come se quest’ultimo fosse un fatto di natura e non un costrutto politico, che è un po’ come confondere la rotazione terrestre con il cambiamento climatico.
Terrorismo. Lo stato moderno occidentale “rivendica con successo al proprio interno il monopolio della violenza fisica legittima” (Max Weber) e al proprio esterno il diritto di scegliersi amici e nemici in base alla propria esclusiva convenienza (Carl Schmitt). Il sistema degli stati portato a compimento nel ventesimo secolo ci regalò, sulla base di questi parametri, due guerre mondiali dopo le quali gli stati occidentali, imparata la lezione (grazie anche alla spinta dei mercati) si avviarono verso forme di coordinamento interstatale e sovranazionale. Fuori dal complesso “occidentale” tuttavia esistevano una quantità di non-stati, le cui forme di governo venivano relegate nelle pagine dei manuali di antropologia culturale, ora trattati alla stregua di espressioni geografiche, ora ridefiniti da nuovi nomi geografici, dalle potenze coloniali e neo-coloniali.
Ma né i classici della sociologia, né quelli della scienza politica e nemmeno gli antropologi portano la responsabilità del termine “terrorismo”, una invenzione di propaganda politica che nasce nell’Ottocento, insieme al sistema degli stati, ma si afferma dopo la seconda guerra mondiale, tant’è vero che i nostri eroi risorgimentali erano ancora dei “traditori”, e i nostri partigiani dei “banditi”. Terroristi diventano, dopo la seconda guerra mondiale, tutte le popolazioni che non accettano il nuovo ordine mondiale così come definito dal nuovo sistema degli stati: i separatisti sudtirolesi e i ribelli algerini, gli indipendentisti corsi e i nazionalisti irlandesi. Non appartenendo ad uno stato o non riconoscendosi in esso non possono avere, per definizione, un esercito “regolare” – unici titolari, stato ed esercito, della violenza fisica legittima.
Tuttavia dà da pensare che il rispettabile Galli della Loggia scriva che “c’è terrorismo e terrorismo – lo capisce chiunque, infatti, che un conto è piazzare una bomba in una stazione di polizia, un altro ben diverso è stuprare una donna o freddare un bambino.” Galli della Loggia sta per caso riconoscendo l’esistenza di target legittimi? Ciò spiegherebbe l’attuale dilagare di quelle che ormai vengono chiamate “atrocity narratives”, ivi compresa quella delle donne stuprate e bambini freddati. Tuttavia a storia ci insegna che l’etichetta di terrorista te la togli di dosso soltanto se vinci: allora diventi un eroe, vedi Cesare Battisti, gli attentatori di via Rasella, le donne con le bombe della “Battaglia di Algeri”, i militanti dell’IRA. Alla peggio vieni garbatamente rimosso dal salotto buono e nascosto in un ripostiglio, come la Banda Stern.
Civili (inermi). Nel nuovo ordine mondiale la parola sta perdendo senso. La vera distinzione sta tra le popolazioni che vivono nelle aree di conflitto (ivi comprese quelle sotto dominazione straniera o occupazione militare) e quelle abitano in paesi o regioni o città in cui si può “passeggiare tranquillamente vicino alla fontana” come racconta in questi giorni un giornalista da Tel Aviv, andare a ballare ai rave “con le automobili che i genitori regalano alle figlie quando compiono 21 anni” secondo la sconsolata descrizione di un giornalista del New York Times che parla di un “paradiso perduto” (alle porte del ghetto di Gaza), e soprattutto spostarsi come si vuole, magari per riprendere fiato in zone più pacifiche, grazie a doppi passaporti o passaporti che ti lasciano uscire da dove vuoi e entrare dove vuoi, come i due giovani, fratello e sorella, !appena tornati da un viaggio in Messico” e corsi a ballare al festival nel deserto. “Non sono soldati” dicono i genitori a cui speriamo i figli vengano restituiti sani e salvi. No, saranno riservisti, come i riservisti israeliani richiamati in questi giorni che magari, come molti, stavano godendo di un “anno sabbatico” post servizio militare in giro per il mondo. Con la chitarra, magari, come “il ragazzo come me” di Gianni Morandi che poi fu mandato in Vietnam.
E’ sempre più difficile capire chi siano i civili. Gli abitanti di Gaza – membri o meno di Hamas perché ci saranno pure dei “ragazzi” anche in Hamas – non possono concedersi una settimana di vacanza in un posto dove c’è acqua ed elettricità a ogni ora del giorno e della notte. Semplicemente perché da Gaza non possono uscire. Coloro che si trovano sotto il dominio di uno stato-guarnigione, fanno qualche fatica a percepire come “civili” i partecipanti ad un rave che sono tutti o di leva o riservisti, ragazzini che si fanno fotografare con il kalashnikov, ragazzine che imbracciano un’arma più grande di loro mandate a bullizzare i palestinesi ai check-point. Fanno fatica a percepire come pacifiche fattorie gli avamposti coloniali dotati di armerie, garritte, bunker e addetti alla sicurezza, più simili alla frontiera del West americano che a pacifici villaggi, che circondano il ghetto di Gaza. Gli “inermi civili” hanno le loro armi in casa. I coloni talvolta le usano per fare incursioni nei villaggi palestinesi.
Chissà se coloro che abbiamo visto schiacciati a terra dagli stivali israeliani all’interno della moschea di Al Aqsa erano civili: di certo nessuno li ha chiamati tali. I Palestinesi a Gaza sono “scudi umani”: poco importa che, a differenza degli Israaeliani, i Palestinesi non dispongono di rifugi, a differenza degli ucraini, non hanno paesi pronti ad accogliere le donne e i bambini dei combattenti. In altri casi sono “danni collaterali” anzi sono un “qualche effetto collaterale” che è “impossibile evitare”. Il “principio di proporzionalità” impone tuttavia di valutare se i danni collaterali “porteranno un concreto vantaggio in relazione alle perdite umane e ai danni arrecati ai civili e ai loro beni” avverte Avvenire. Insomma, se ci conviene è legittimo. “Sono morte duemila persone, un quarto delle quali bambini” si legge. Significa cinquecento bambini uccisi. Ma per la contabilità della proporzionalità, meglio fornire delle astratte percentuali: un quarto di duemila significa il 25% di “danni collaterali”. Chissà se la cifra soddisfa il principio di proporzionalità
Democrazia (la sola). Il termine democrazia appartiene alla serie dei mantra intonati dagli ideologi e ripetuti a pappagallo dagli ignoranti. “Israele è la sola democrazia in Medio Oriente”: ok se la democrazia è compatibile con l’apartheid allora prendiamo in considerazione l’idea che Israele sia una democrazia. Purtroppo così facendo non si rende un buon servizio alla democrazia. “Israele, … cosa che a qualcuno degli utili idioti del fanatismo islamico deve essere sfuggito, è una democrazia” afferma sussiegoso Cerasa, da tempo convinto che gli insulti funzionano meglio degli argomenti. Chissà come mai la cosa è sfuggita ai Palestinesi.
Ma c’è di peggio. Rischiamo di allevare generazioni che diranno : “Democrazia? No grazie”. La democrazia servita in salsa israeliana ha reso il piatto talmento disgustoso per i palati non occidentali che molti non ne vogliono più sapere. E lo stesso dicasi delle libere elezioni, base fondante della democrazia. In Palestina nel 2006, con la vincita di Hamas delle elezioni legislative, abbiamo assistito ad uno scenario simile a quelli verificatesi prima in in Algeria e in Cile, dopo in Egitto e in Tunisia: appena dalle urne esce un vincitore inviso alle potenze occidentali queste si danno da fare per destabilizzare il paese e rovesciare il governo. Nel caso della Palestina questo ha significato appoggio ad Al-Fath contro il vincitore Hamas, taglio degli aiuti, congelamento delle entrate fiscali, poi embargo e blocco di Gaza. E oggi si sente il solito ritornello: “A Gaza non ci sono state elezioni dal 2006” – mica come nella democratica Israele. A qualcuno deve essere sfuggito che elezioni nelle condizioni odierne, cioè sotto occupazione militare e controllo straniero, non rispetterebbero nemmeno lontanamente le condizioni necessarie per essere definite “democratiche”: non garantirebbero né la libera formazione dell’opinione né la libera scelta dei rappresentanti.
Ebrei. “Ebreo”, nell’autointendimento sia degli Ebrei, sia degli Israeliani, fa riferimento ad una etnia e a una religione. E’ ebreo “chi discende da madre ebrea o chi si è convertito secondo le regole.” Le conversioni sono fortemente scoraggiate e i convertiti devono dar prova di vivere in modo rigorosamente ortodosso mentre chi vanta una madre ebrea gode di un riconoscimento incondizionato. Israele come stato oggi riconosce il diritto alla cittadinanza, in quanto ebreo, non solo a chi è di madre ma anche di padre ebreo, se intende stabilirisi in Israele e fare il servizio militare.
Poiché Israele si autodefinisce stato ebraico criticare Israele sarebbe sempre e comunque una manifestazione di antisemitismo: questo sillogismo oggi in diversi stati occidentali è legge penale. Accompagnato da quello secondo cui se un ebreo aggredisce un non-ebreo tutt’al più è una aggressore ma perlopiù un legittimo difensore; se il non-ebreo risponde è un antisemita. L’attacco del 7 ottobre è stato descritto come un “cercare e ammazzare gli ebrei casa per casa” e di conseguenza un “pogrom” altra parola che ha inondato i media mainstream. I superciliosi custodi della precisione storica che si stracciano le vesti quando si dice che gli israeliani usano metodi propri dei nazisti in questo caso non fanno una piega. Hamas avrebbe attaccato ed ucciso quelli che stavano dall’altra parte del muro – coloni, guardie, militari – “perché ebrei”, “in quanto ebrei”. Non perché si trattava di persone che avevano invaso le loro terre, li avevano cacciati dalle loro case, li tenevano prigionieri in un ghetto, tenevano prigionieri i loro bambini nelle loro carceri ma bensì in quanto ebrei. Nessuno fa notare che c’è poco da cercare “casa per casa” perché le case sono tutte occupate da ebrei e sorgono su terre e villaggi dove prima abitavano i palestinesi che da essi sono stati cacciati in quanto “arabi” ad opera di ebrei in quanto ebrei.
Per chiarire meglio come Israele sia la Terra degli Ebrei ed esclusivamente degli Ebrei è stata approvata nel 2018 la “Legge fondamentale” che definisce Israele “lo stato-nazione del popolo ebraico” al quale soltanto è riconosciuto il diritto alla sua autodeterminazione. Per chiarire il concetto, lo storico israeliano Tom Segev spiega (con stile “graffiante” come lo definisce Cremonesi) che “l’idea dell’espulsione degli arabi per garantire il nostro Stato è stata costante: non per forza tutti ma una buona parte di loro da un territorio che deve essere il più esteso possibile e avere il massimo numero di ebrei”. Avete detto pogrom?
Il politologo Piero Ignazi conclude una sua raffinata analisi delle due anime della destra italiana odierna – la vecchia anima ancora fascista e antisemita e la nuova anima “ così ferma … contro l’antisemitismo di Hamas.” – con l’esortazione a compiere ancora un passo ed “espungere dalla sua visione l’idea di patria e di nazione fondate sul sangue e il suolo, e aprirla invece alla convivenza di genti diverse”. Ma lo stato di Israele non è forse nato sulle idee di “sangue e suolo”? Il filone di ispirazione universalistica di stampo socialista che pur esisteva e si riflette nella Dichiarazione di Indipendenza del 1948 è morto da un pezzo e non poteva essere altrimenti. Resta solo oggi l’affinità elettiva tra una destra post-fascista e uno stato sovranista etno-nazionalista.