167 miliardi di dollari, ammonta a tanto il debito estero che l’Egitto ha accumulato in questi ultimi anni. Nel 2014 erano 49: un chiaro segno di un’economia a picco all’interno di un quadro politico caratterizzato da una stretta autoritaria senza precedenti. Reggere un sistema dittatoriale costa. Lo sanno bene che l’Arabia Saudita ed Emirati Arabi che dal 2013 sostengono il regime del generale Al Sisi con finanziamenti a fondo perduto di decine di miliardi di dollari.
Anche il FMI ha elargito al Cairo pacchetti di aiuti, l’ultima è la tranche di 3mld per il 2023 in cambio di una svalutazione della lira egiziana, taglio alla spesa pubblica e la privatizzazione dei servizi. Il regime inoltre sta portando avanti una politica volta a vendere gli asset economici del paese, la gestione del Canale di Suez tra tutti, da i quali potrebbe ricavare almeno 8mld, utili a portare avanti un carrozzone burocratico, politico e militare essenziale la sopravvivenza della dittatura. Soprattutto ora che il rubinetto del Golfo si è chiuso dopo che sauditi e gli Emiratini hanno scoperto loro malgrado che gli aiuti inviati sono deviati nei conti personali di Al Sisi, con i quali costruisce ville personali ed elargisce fondi costanti alla cerchia ristretta intorno a lui.
C’è il rischio concreto che continuando in una politica così miope scoppi una rivolta popolare all’interno di una forbice tra ricchezza e povertà mai così ampia, con il 40% degli egiziani sotto la soglia di povertà e un’inflazione galoppante. Inoltre la guerra in Ucraina ha pesantemente colpito l’economia egiziana, in particolare il settore dell’agricoltura: l’Egitto era il primo importatore del grano di Kiev, tanto che con gli ammanchi nelle importazioni generi come il pane e la pasta hanno raggiunto prezzi insostenibili per molte famiglie che preferiscono ripiegare sulle patate.