Fuori da Gaza esistono telegiornali accesi h24, analisi politiche, manifestazioni organizzate in tutte le capitali del mondo, esistono segretari di governo e delle Nazioni Unite che prendono posizioni a volte sbagliate, a volte ambigue (mai giuste). Esistono programmi tv e talk show che commentano un genocidio in corso. Fuori da Gaza c’è un mondo che segue col fiato sospeso un’ingiustizia epocale e quel mondo scrive, denuncia, prova ad informare, a boicottare, a mandare aiuti economici.
Forse nessuno di noi ci ha mai pensato, ma dentro Gaza tutto questo non esiste. Non ci sono telegiornali accesi tutto il giorno, perché tutto accade da loro, nessuno a Gaza ha tempo di fare analisi politiche o di scrivere e organizzare eventi in cui si parla della loro sofferenza, e a chi servirebbe? La sofferenza è lì, aleggia tra loro, ormai da un lunghissimo mese. A Gaza tutti i possibili drammi che un popolo possa vivere, sono presenti all’appello. La fame, la sete, la povertà, l’abbandono, la morte, l’esilio, le case distrutte, le ferite profonde, le malattie, la paura, il non sentirsi sicuri nelle proprie case. Il popolo di Gaza sta vivendo una crisi umanitaria grandissima. Se noi viviamo incollati sull’emittente giornalistica di Al Jazeera, loro vivono incollati al proprio dolore, non c’è modo di staccarsene. È il dolore il protagonista assoluto delle case di Gaza, delle giornate e delle notti di Gaza.
Tra i tantissimi video che ci giungono di questa immane sofferenza, quelli che toccano maggiormente sono quelli che mostrano un padre o una madre con in braccio il figlio avvolto in un sudario bianco.
Cosa vuol dire non vederlo crescere, non avere più un pezzo della propria anima? Ogni madre e ogni padre se lo chiede guardando quelle immagini e quei video così forti. Giungono poi video ancora più drammatici. Come quello in cui la Dottoressa Ghana Abu Aida, dell’ospedale indonesiano, riconosce ad un certo punto il corpo di una bambina che giunge in pronto soccorso in barella. “è mia figlia!” dice. E corre per i corridoi dell’ospedale gridando. La figlia riporta ferite gravissime, nel video sono offuscate. La donna la vede e viene allontanata dai colleghi. Subito dopo cade per terra e perde i sensi.
Un altro video mostra un padre che chiama i propri figli. “Salma!Said!
Salma! Said!” continua a chiamare, li chiama da sotto le macerie. “Non vi sento, non vi sento!” grida. E intanto poggia le sue orecchie sui mattoni ridotti in polvere della propria casa. “Yaba! Non vi sento” continua a dire. Ha in mano un piccolo martello. Ogni tanto colpisce quelle macerie. “Non ti ho mica detto di stare attento a tua sorella? Non ti ho mica detto di stare attento a tua sorella?” chiede, mentre piange e pian piano realizza. Nessuno dei due bambini risponde. Da sotto le macerie il silenzio è assordante. Sono morti, schiacciati dalla loro stessa casa, dal loro vissuto, dai loro ricordi. “Dio possa concedergli la misericordia” gli dicono gli uomini che stanno attorno a lui, lui guarda di nuovo quel cumulo altissimo di macerie e i suoi occhi si svuotano dell’amore per la vita.
Un video tra i tanti, tra i mille video che giungono ogni giorno. Perché dall’inizio dei bombardamenti parliamo di circa 400 morti ogni giorno. Circa 10.000 morti. Dei quali, la metà, bambini.
Una madre, in ospedale, prende in braccio il figlio morto: “Alzati, che ti allatto” gli dice. “Alzati, che ti allatto.” Come si fa a realizzare tanto dolore? Sono drammi nel dramma. Perché oltretutto la popolazione di Gaza non ha nulla per rinvenire i corpi da sotto le macerie. I dottori raccontano che dovunque si sentono grida d’aiuto da sotto le macerie, ma che senza gru e senza gli strumenti necessari, quelle voci piano piano si indeboliscono, fino a sparire. Immaginate riconoscere la voce di vostro figlio invocare aiuto, immaginate di sapere che con lo strumento giusto, avreste potuto salvarlo, invece che perderlo per sempre.
Quanto strazio, quanto dolore. È il dramma nel dramma perché i bambini, così come gli adulti sono affamati. Una madre, in un video, grida: “I miei figli sono morti affamati, sono morti affamati!”. Gli ospedali poi non hanno rifornimenti dal 7 di ottobre. Partiamo dalle cose più basilari come garze e acqua fisiologica, fino ad arrivare a antidolorifici o anestesie essenziali per fare operazioni chirurgiche. I medici di Gaza stanno lavorando come nessun altro medico ha mai lavorato al mondo.
Fanno partorire donne col cesareo senza anestesia, gli ospedali sono così pieni che i pazienti vengono curati nei pavimenti freddi. Non ci sono letti e non c’è privacy. Tutti vedono i corpi martoriati e a pezzi di tutti. Già prima del 7 ottobre, in realtà, il sistema sanitario a Gaza era in condizioni precarie. L’embargo imposto su Gaza, infatti, limitava l’accesso di medicine e rifornimenti sanitari. Con l’assedio totale, stiamo assistendo al collasso del sistema sanitario. 7 ospedali e 25 strutture sanitarie sono ormai inutilizzabili a causa dei bombardamenti. Ad oggi, sono state colpite 20 ambulanze e uccisi 51 operatori sanitari. Gli ospedali ancora in funzione, invece, non hanno rifornimenti di carburante (necessario per generare elettricità), così sono obbligati a ridurre i servizi offerti e addirittura a scegliere chi curare. Di fronte a casi gravissimi, infatti, si preferisce prendere in carico casi meno gravi, che hanno più probabilità di recuperare vita.
Tutta questa situazione umanamente inaccettabile porta ad una domanda: Qual è il valore della vita? Cosa vuol dire la vita?
La vita è un dono di Dio, e l’essere umano cerca la vita, vuole la vita, ama la vita. È nell’indole dell’essere umano cercare la vita, per quanto questa possa essere difficile, povera, miserabile. Gli uomini, le donne e i bambini stanno scavando con le proprie mani tra le macerie, in cerca della vita. I dottori stanno facendo turni insostenibili, stanno curando in situazioni incredibili, per cercare la vita. Le donne proteggono i loro figli come possono, per cercare la vita. Un milione di persone si è spostato da nord a sud, lasciando tutto quello che possedeva, per preservare la propria vita.
La vita è un diritto umano inalienabile. Non è un diritto solo dei popoli occidentali, e per quanto “orientale” e diverso possa essere un popolo, ogni persona ha diritto alla vita. Siamo di fronte ad un nemico che disprezza la vita, che crede che l’ultimo sospiro di un palestinese non valga niente.
È una tragedia, un genocidio di fronte ai nostri occhi e la sofferenza di Gaza è pulsante in ogni sorso d’acqua salata che bevono, in ogni bambino morto che contano, in ogni casa distrutta, spazzata dai ricordi.
Non dimentichiamo il lato umano di questa vicenda. Perché dopo tutte le analisi politiche e i fatti storici, è la sofferenza umana quella che a Gaza resterà. Incancellabile e tangibile nell’animo di ognuno di loro e in parte, di ognuno di noi.