In questa testimonianza Hanin, italo-palestinese, ci racconta come nelle immagini di Gaza, riviva il dramma di sua nonna.
O voi, viaggiatori tra parole fugaci
portate i vostri nomi,
ed andatevene.
Ritirate i vostri istanti dal nostro tempo,
ed andatevene.
Descriveva così la Nakba Mahmud Darwish, la catastrofe che hanno subìto i palestinesi, costretti a lasciare le loro case, i loro ricordi, la loro terra, per far spazio ai sionisti, disposti a qualsiasi cosa, pur di rubare la loro terra. Una diaspora che i palestinesi non hanno mai superato e che oggi, sono obbligati a rivivere e a subire per l’ennesima volta.
Mia nonna, all’epoca diciannovenne, era da una sua amica per una commissione. Era il 1948 e la Palestina non era più un luogo sicuro. I sionisti avevano iniziato la pulizia etnica seguendo il famoso piano Dalet e non risparmiavano nessuno. Neanche i bambini o le donne incinte.
Quando sentì la terra tremare a causa della forza delle esplosioni, mia nonna corse rapidamente verso casa e trovò suo marito e il figlio per terra immersi in una pozza di sangue; le voci dei suoi due neonati la riportarono alla realtà si precipitò in stanza da loro.
Non c’era tempo per riflettere, non c’era tempo per far niente, erano lì, i terroristi sionisti erano arrivati, per liberarsi di loro e innalzare la bandiera bianca e azzurra. Prese in braccio i gemelli e uscì di corsa diretta verso la casa della sua famiglia per ritrovarsi davanti agli occhi la stessa scena, i suoi genitori e suoi fratelli per terra ricoperti di sangue.
Doveva andarsene e mettere in salvo i suoi gemelli. Si guardò intorno, uomini uccisi donne incinte sgozzate, urla strazianti, odore di sangue e di morte. In mezzo a quello scenario terrificante vide un asino, salì in groppa e si mise in viaggio fino a raggiungere la zona di Korba, a est di Shuja’iyya. Intanto si era fatto buio e si fermò in un angolo appartato e cadde in un sonno profondo.
Quando si svegliò, non trovò né l’asino e neanche i due bambini. Mia nonna urlò, avrebbe voluto morire. Le avevano portato via la famiglia, i figli, la casa e la sua terra.
Dopo qualche anno mia nonna si risposò ed ebbe altri figli in un’altra città, ma quel dolore, quel trauma non l’ha mai superato. Ancora oggi, a 94 anni affetta da demenza senile, ricorda ogni minimo dettaglio di quel terribile anno che fu chiamato Nakba, ossia catastrofe.
Oggi a Gaza la storia si ripete, è in corso una seconda nakba.
I palestinesi che arrancano in mezzo ai carri armati israeliani e ai corpi dei loro fratelli in decomposizione per trasferirsi a sud della striscia di Gaza hanno detto di temere una nuova “catastrofe” simile a quella del 1948 sulla quale si è fondato Israele.
Migliaia di persone si stanno spostando a sud lungo la via di Salah al-Din, l’unica via di uscita per i civili in fuga dai bombardamenti ininterrotti israeliani.
Molti hanno espresso il timore che, se fossero stati costretti a lasciare le loro case adesso, non avrebbero mai potuto tornare, proprio come i loro antenati.
L’obiettivo militare dichiarato dallo stato occupante di Israele è quello di eliminare Hamas, eppure le autorità sanitarie della Striscia di Gaza dichiarano che le forze d’occupazione israeliane hanno bombardato solo civili, ospedali, rifugi, campi profughi, bambini, acquedotti e addirittura camion di aiuti umanitari.
Il genocidio a Gaza ha squarciato il velo di Maya mostrando l’ipocrisia delle istituzioni internazionali, dell’Unione Europea e degli Stati Uniti che di fronte a bambini massacrati e ad ospedali pediatrici ed oncologici bombardati mantengono un silenzio e un’indifferenza disumana.