Intifada, in arabo significa scuotimento. I lettori e i telespettatori ormai lo sanno, eppure nella comunicazione di mainstream dal 7 ottobre è stata data ogni possibile traduzione fuorviante della parola.
La rivolta popolare che dal dicembre 1987 oppose resistenza nei territori palestinesi occupati da Israele nel 1967. Una rivolta ‘povera’, fatta di scioperi, dimostrazioni, scontri con le forze d’invasione, azioni di disobbedienza civile. Dalla striscia di Gaza alla Cisgiordania, Intifada ha lottato per la liberazione del territorio palestinese e per il riconoscimento dei propri diritti, dapprima civili e poi perfino umani.
Dalla fine degli anni ’80 Intifada ha portato per strada centinaia di migliaia di persone in tutto il mondo a manifestare contro l’oppressione israeliana sui palestinesi.
Intifada fa eco con gli Accordi di Oslo (1993) e con la nascita dell’Autorità Nazionale Palestinese. E con Sharon che invade la Spianata delle Moschee di Gerusalemme nel 2000.
La maggior parte di questi combattenti, soprattutto della prima Intifada è morta, i pochi sopravvissuti stanno nelle carceri israeliane, insieme a quelli della seconda e terza ondata. Entrano più o meno ventenni e scontano dai 20 ai 40 anni di detenzione.
Quando escono il progetto di famiglia è sfumato, le loro mogli non sono più in età fertile.
Tuttavia, negli ultimi 10 anni, sono nati un centinaio di bambini palestinesi dai padri detenuti.
Li chiamano i “messaggeri della libertà”.
Sulla piattaforma ARTE va in onda dallo scorso febbraio un reportage, scritto e diretto da Niagara Tonolli e Antoine Boddaert che racconta questa straordinaria realtà di fatto.
Grazie alla fecondazione artificiale, divenuta una vera e propria arma al servizio della causa palestinese, le mogli riescono ad avere figli dai loro mariti rinchiusi nelle carceri israeliane.
Ci sono circa 6000 palestinesi combattenti per la libertà, uomini e donne, detenuti nelle carceri israeliane.
Le donne fanno viaggi di ore per andare a portare i figli a conoscere i padri in carcere, a volte sono pullman noleggiati dalla Croce Rossa.
Le visite durano meno di 45 min e i figli più piccoli di 8 anni posso stare con i padri per 5 min.
L’ONG Palestinian Prisoners Society è impegnata nei diritti per i carcerati, e nel tempo si è battuta per ottenere risultati anche sul diritto alla procreazione dei detenuti.
Il centro Razan per l’infertilità, specializzato nella fecondazione in vitro, si è mobilitato ad aiutare il nucleo familiare dei prigionieri incarcerati a svilupparsi, considerando questo sostegno un servizio umanitario vero e proprio.
In qualche modo, i detenuti riescono a far uscire il liquido seminale dalle carceri israeliane, nonostante i controlli e checkpoint dell’esercito, e attraverso le visite dei familiari, arriva nei laboratori del centro Razan, al dott. Khaizaran.
A volte il viaggio di ritorno dura ore, quindi i laboratori devono essere sempre pronti, per cercare di salvare gli spermatozoi ancora vivi.
Naturalmente tutte le fasi dell’operazione devono accadere sempre davanti a testimoni attendibili e la catena di trasporto deve essere affidabile, per evitare l’accusa di adulterio. Tutti, le famiglie, la comunità, l’imam devono essere informati per evitare scandali. Talvolta si rende necessaria anche una fatwa per legittimare la gravidanza di una donna con il marito in carcere.
Il ministero per gli affari carcerari e Hamas sostengono e finanziano questo metodo di procreazione. Anche il Più Alto Consiglio per le Questioni Religiose si è dimostrato innovativo accettando la pratica e riconoscendo la legittimità dei figli nati attraverso questo escamotage, anzi, considera questo metodo una vera e propria forma di lotta all’occupazione, totalmente in accordo con la sharīʿa nell’interesse della famiglia.
Quando le mogli o le madri dei carcerati vanno a trovarli in parlatorio, gli uomini possono dare ai bambini le bustine dei biscotti o delle patatine che ricevono per pranzo dalla mensa carceraria. E qui avviene il passaggio.
In qualche modo, riescono ad aprire le confezioni e infilarci le bustine sigillate con il liquido seminale, le richiudono attentamente e le consegnano alle mogli, o alle madri.
Toccherà a loro, ora, superare i controlli serrati e riuscire a portare in tempo le confezioni nei laboratori, nella gran parte dei casi servendosi anche di taxi.
Per i palestinesi che abitano nella striscia di Gaza è molto più difficile rispetto a quelli della Cisgiordania, perché tutta Gaza è un grande carcere a cielo aperto, e ciononostante sono molti i bambini nati a Gaza.
Nessuno chiede il test del Dna su questi bambini, le carceri perché non vogliono dare l’evidenza che il loro sistema di controllo è debole, e i detenuti per non gettare l’ombra dell’adulterio sulle proprie mogli.
Anche i bambini sono a conoscenza dello stratagemma impiegato per il loro concepimento, la condizione di dover crescere senza padre è pesante, eppure riescono a riderci su e definiscono sé stessi nati da una busta di biscotti. Ciò nondimeno, per tutti sono i messaggeri della libertà, le generazioni che forse faranno in tempo ad avere un futuro diverso, senza muri, senza carceri, senza bombe sulla terra di Palestina. Avere una vita.
Israele nega a questi bambini qualsiasi esistenza legale, non hanno alcun riconoscimento, sono bambini senza documenti e rimangono fuori dai radar di controllo.
Per Israele, i messaggeri della libertà non esistono, non ammettono che ci possa essere un futuro per il popolo palestinese.
Invece, per i palestinesi questi bambini sono il simbolo della vita, “l’idea che noi possiamo continuare ad avere figli fa tremare gli invasori”.