Fa rabbrividire la storia di Yuval Kastelman, divenuto virale sui social media israeliani con immagini che in pochi hanno visionato nel resto del mondo. Di lui non sappiamo quasi nulla, salvo che si trovava sulla scena dell’attentato che a Gerusalemme ha visto uccise tre persone ed è stato rivendicato da Hamas come risposta alle incursioni israeliane a Jenin e nei Territori Occupati (dal 7 ottobre vi sono stati 227 morti).
Sappiamo anche che Kastelman avrebbe compiuto 38 anni quel venerdì. E’ stato uno dei primi ad aprire il fuoco contro i due miliziani di Hamas, successivamente uccisi da due militari fuori servizio, prima di essere stato freddato a sua volta da uno dei due soldati delle IDF che lo ha scambiato per un terzo attentatore.
E non ci sarebbe molto da aggiungere se non fosse che le riprese delle telecamere di sicurezza mostrano chiaramente che Yuval era in ginocchio con le braccia alzate quando il soldato gli ha sparato. Così descrive il video Reuters: “Kastelman butta via la sua arma, cade in ginocchio e alza le braccia come a far segno di non sparare”. Più drammatica ancora la sintesi di Haaretz: “Si vede Yval Doron Kastelman alzare le mani supplicando i militari israeliani di non sparare – poi gli sparano e cade a terra.”
La storia, riportata marginalmente anche da parte della stampa italiana, difficilmente troverà attenzione, dato che poche ore dopo Israele ha lanciato nuovi massicci bombardamenti su Gaza, con già quasi duecento vittime molte delle quali, come al solito, bambini. Eppure il fatto ci suggerisce due cose più importanti di cento testimonianze. In primo luogo, essa illustra come i Palestinesi vengono trattati dagli Israeliani: uccisi a sangue freddo anche se impotenti e disarmati, come gli Americani uccidevano i Vietcong, i Francesi gli Algerini, i Boeri sudafricani i Neri. E per un attimo per Yuval proviamo compassione perché in quel momento, prima di morire, deve aver capito cosa lo aspettava e cosa vuol dire essere un Palestinese nello stato sionista.
In secondo luogo, l’incidente testimonia il livello di paranoia cui sono giunti gli israeliani. Se questo è il destino comune degli oppressori quando monta la resistenza degli oppressi fa una certa impressione vedere come la paranoia sia ormai diffusa tra le forze armate del paese, le mitiche Tsahal, e le stia minando dall’interno malgrado la loro soverchiante superiorità tecnologica.
Non è così da oggi, basta vedere il bel film “Lebanon” (2009) del regista israeliano Samuel Moaz, ,ma in questi giorni abbiamo visto l’esercito sparare sui propri cittadini dopo l’incursione di Hamas del 7 ottobre e sappiamo per certo che i capi politici e militari sono disposti a mettere in conto non solo la morte di civili palestinesi – bambini, donne, anziani – ma anche la morte dei propri cittadini e degli ostaggi israeliani. E neppure per il bene della patria ma per la conservazione del proprio potere e della propria base sociale.
Quando dei soldati – dei giovani, dei militari di leva, dei riservisti – ricevono l’ordine di sparare senza guardare a chi stanno sparando, storie come quelle di Yuval rientrano nell’ordine delle cose. Un ordine destinato a implodere – non senza essere preceduto, purtroppo, dallo scatenarsi della ferocia cui stiamo assistendo in queste ore.