75 giorni di guerra, migliaia di bombe scaricate su Gaza, tanto da superare l’equivalente delle due bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki come riporta l’analista militare Faiz Duari su Aljazeera. 20mila vittime civili, il 90% della popolazione della Striscia di Gaza sfollata, un dramma senza fine. Risultato? Le forze israeliane non sono riuscite a catturare neanche un combattente di Hamas e nemmeno a liberare un ostaggio. E la potenza di fuoco dell’esercito della stella di David non ha intaccato le capacità militari del movimento palestinese che proprio ieri ha lanciato attacchi missilistici contro Tel-Aviv. Missili come messaggi politici indirizzati alla leadership israeliana: state fallendo. A mancare il bersaglio non è solo l’esercito israeliano ma anche la sua classe politica.
Miopia militare, miopia politica
Il giornale saudita Al Hayat, citando il New York Times, disegna il quadro dell’attuale visione del governo israeliano su Gaza: idee frammentate e contrastanti. La Striscia di Gaza dopo la guerra come sarà?
Inizialmente l’idea del governo di Bibi era eliminare Hamas, liberare gli ostaggi e favorire l’ascesa di Fatah nella Striscia, anche grazie all’ok di Washington. L’incontro tra il segretario di stato americano Blinkin e Abu Mazen di qualche settimana fa rientrava proprio nel disegno più ampio di un governo di Gaza “moderato” con Fatah, preludio per il riconoscimento di uno stato palestinese. Ma questo programma si è dissolto di fronte allo stallo dell’esercito israeliano che non riesce a controllare Gaza e che subisce quotidiana ingenti perdite
La leadership israeliana senza una visione
Di fronte ad un pantano di tale portata, Netanyahu ha rivisto i piani dichiarandosi pronto a gestire una Gaza senza Hamas: “Sarà nostra responsabilità garantire la sicurezza della Striscia dopo la guerra” ha dichiarato pubblicamente.
A stretto giro l’ha seguito il presidente egiziano Al Sisi che ha proposto uno stato palestinese senza armi con la presenza temporanea sul campo di forze internazionali di peacekeeping o arabe che garantiscano la sicurezza per poi cedere il testimone a Fatah. Visioni diverse che non aiutano a capire l’obbiettivo politico di Tel-Aviv nel conflitto in corso.
Il sogno di una Gaza senza Hamas
Negli ultimi 15 anni, non c’è guerra che Israele abbia condotto senza che si ponesse come obbiettivo l’eliminazione di Hamas. È successo nel 2008, nel 2014, nel 2018, nel 2021 e ora nel 2023. E nonostante l’uccisione di decine di dirigenti del movimento si è registrato in tutti questi anni tra le fila del movimento uno sviluppo nelle capacità politiche, diplomatiche e militari che hanno portato all’attacco unico nel suo genere per grandezza e portata, quello del 7 Ottobre: operazione condotta via terra, via mare e aria in maniera congiunta e rapida, un blitzkrieg che ha paralizzato le forze israeliane come mai nella sua storia. Una Gaza senza Hamas pare ad oggi un’utopia ed è sconcertante pensare che la classe politica israeliana non sia in grado riconoscerla come tale, al netto della propaganda interna. Così come puntare sul movimento al Fatah, che non è in grado di controllare la West Bank, come futuro forza di governo a Gaza sembra essere una mossa poco lungimirante considerata la sua poca presa sui palestinesi: la corruzione e il coordinamento attivo con Israele la segnano come una forza collaborazionista col nemico.
La paralisi e la pressione: lo scacco matto
Questa paralisi ora attraversa la politica israeliana che manca di visione, con una pressione internazionale senza precedenti, con l’alleato americano che chiede di terminare a breve le operazioni militari a Gaza e le famiglie degli ostaggi che manifestano per la liberazione dei propri cari.
Come in una partita a scacchi, si perde quando qualsiasi mossa si intenda portare avanti non porti altro che la sconfitta. E forse è il caso di Israele, vediamo come:
Se Netanyahu porta avanti il conflitto, le perdite israeliane aumentano, gli ostaggi moriranno e non è certo che si riesca a sconfiggere Hamas. Inoltre economicamente la guerra ha un prezzo altissimo: l’agricoltura nei territori occupati vicino a Gaza dai quali Israele ricava il 70% del suo fabbisogno di vegetali è ferma, il settore edile è in calo a seguito dello stop della manodopera palestinese, il settore industriale soffre per la mancanza di personale, che è arruolata come riservista in guerra. Questa mossa rischia di portare all’esplosione di un fronte interno senza precedenti che costringerebbe forse Netanyahu alle dimissioni e allo stop della guerra per evitare il tracollo economico e sociale. Con poi la partita degli ostaggi da giocare in una posizione di minorità.
Se si ferma il conflitto, lo stop significherebbe riconoscere l’incapacità militare e politica di Israele, con una Hamas vittoriosa, con più potere negoziale e pronta ad altri potenziali attacchi futuri, forte della sua capacità militare e con il jolly degli ostaggi che costringerebbe Tel-Aviv a fare concessioni senza precedenti. E questo porterebbe la società israeliana a interrogarsi sulle responsabilità di questa sconfitta, puntando il dito contro la dirigenza politica, in primis Netanyahu.
Israele è ad uno scacco matto ma forse non se n’è ancora accorta.
Credito immagine copertina: Politico