Il conflitto in corso a Gaza non sta solo modificando gli scenari e i rapporti di forza tra Israele e la resistenza palestinese. In gioco ci sono anche nuove situazioni sul campo, mai viste prima e che mai avremmo pensato potessero accadere. Da 75 anni siamo abituati a sentire le vicende tragiche dell’esodo dei palestinesi del 1948, cacciati dalle truppe israeliane per far spazio al neonato stato sionista. Di rifugiati palestinesi nella West Bank ce ne sono a migliaia, cosi come nella Striscia di Gaza prima e dopo il 7 Ottobre: sfollati riparati in rifugi temporanei, scuole, capannoni.
Sfollati con la kippah
Al Ahram, storico giornale egiziano richiama l’attenzione su una nuova dinamica in corso in Israele: gli sfollati cittadini israeliani. Sono circa 1 milione, che dopo l’attacco del 7 Ottobre sono stati costretti a lasciare i kibbutz a nord ed est della Striscia, territori occupati, per fuggire verso aree più sicure, nell’hinterland israeliano. Vivono accampati nelle scuole, centri di accoglienza, capannoni sotto il costante timore dell’arrivo di missili da Gaza, che stanno colpendo quasi tutto Israele: da Eretz, che dista pochi kilometri da Gaza, fino a Shitim nel profondo deserto prossimo all’Egitto, passando per la capitale Tel-Aviv.
Buon 2024 con i missili
Ed è proprio in quest’ottica – di rendere loro la vita un inferno – che al Qassam, braccio armato di Hamas, ha inaugurato il 2024 alle 00:00 ora di Gaza, con un lancio intenso di missili verso la capitale israeliana. I missili non sono pensati per distruggere, ma per creare insicurezza, tensione e sfollare i cittadini israeliani. Per far sentire loro cosa significa essere perennemente in fuga, braccati e cacciati come i palestinesi da 75 anni. Non solo, i razzi portano anche un forte messaggio politico: dopo più di 80 giorni di bombardamenti sulla Striscia la resistenza riesce ancora a colpire come e quando ritiene necessario i territori nemici, senza che Israele possa opporsi a questa resilienza militare palestinese.
Senza dimora, senza un termine
I territori ad est di Gaza, dove vivevano 800mila coloni, sono terreni fertili e agricoli dai quali Israele ricavava il 70% di prodotti vegetali per il proprio sostentamento. Ora che sono incolti e vuoti dal 7 Ottobre, l’approvvigionamento arriva dagli Emirati Arabi che a ritmo continuo invia derrate alimentari in container che attraversano l’Arabia Saudita e la Giordania. Ciò che non arriva invece è la possibilità per questi coloni di tornare nelle loro colonie. Sono costretti da 3 mesi ormai a vivere accampati senza un termine preciso, cosa che aumenta lo scontento, la rabbia e la frustrazione verso la leadership di governo, incapace di dare una fine a questo conflitto che doveva essere lampo ma che è diventato una palude.
Il paradosso: ogni mossa è sbagliata
L’incapacità di dare agli sfollati una risposta chiara deriva da una situazione militare sul campo e politica intricata: se Israele si ritira da Gaza, al Qassam smetterà (forse) di lanciare missili ma uscirà vittoriosa dalla guerra e potrà riarmarsi nuovamente per nuovi attacchi in stile 07 Ottobre. Se invece Israele continuerà l’operazione militare, il rischio è uno stillicidio con ingenti perdite senza raggiungere alcun obbiettivo, scatenando così la sfiducia dei cittadini israeliani, con la rottura del patto sociale tra la popolazione ed esercito, che è il caposaldo dello stato sionista. Le dichiarazioni della Casa Bianca di ieri che hanno definito Hamas ancora forte militarmente e presente in maniera salda a Gaza non aiutano per niente l’alleato israeliano e anzi suonano come un rimprovero sul fallimento militare e un chiaro avvertimento: terminate le operazioni militari a Gaza.