La controffensiva iraniana contro il regime israeliano e la necessità storica di una Realpolitik anti-sionista deterrente

120 missili balistici, 170 droni e 30 missili di crociera: questi sono gli ordigni che l’Iran ha lanciato fra il 13  ed il 14 Aprile contro Israele in risposta al bombardamento di Tel-Aviv che nel Marzo scorso ha ucciso a Damasco alti dirigenti della Guardia Rivoluzionaria iraniana. Per tutta la notte le sirene sono suonate a Tel-Aviv così come in altre città e nel Golan siriano occupato. L’attacco, ampiamente anticipato da Teheran agli Usa ed Israele, è stato un atto simbolico e dimostrativo più che volto a creare danni a Tel-Aviv.
Risposta necessaria, un precedente importante 
Per quanto questo attacco fosse dimostrativo, non dobbiamo dimenticarci della portata comunicativa di questo attacco: i missili iraniani per la prima volta hanno colpito Israele, creando un precedente unico nella storia contemporanea. Mai l’Iran si era spinto così oltre, lasciando gli alleati in Iraq, Siria e Yemen colpire Israele per interposta persona. La risposta dunque era necessaria politicamente  e il messaggio inviato è stato forte e chiaro: questa volta abbiamo fatto una prova, la prossima potrebbe andare diversamente e ne abbiamo le capacità. Le dichiarazioni dei dirigenti iraniani infatti hanno ricalcato proprio questo indirizzo politico: non vogliamo la guerra con Israele, ma siamo a pronti a farla.
Israele cerca di allargare il conflitto
 Netanyahu, che non aspettava altra occasione per uscire dal pantano politico di Gaza, ha provato a cogliere questa occasione per allargare il fronte nella speranza di raccogliere, anche parzialmente, delle vittorie politiche prima che militari ma Biden l’ha frenato bruscamente. Mentre il Bibi voleva già preparare un attacco su larga scala contro l’Iran, il presidente americano frena: con le elezioni alle porte non può permettersi di impegnarsi in nuovi fronti, che potrebbero rivelarsi catastrofici, come il conflitto con l’Iran. Per questo le parole di Biden in queste ore sono indirizzate verso la chiusura dello scontro tra Iran ed Israele, nel tentativo di circoscrivere la situazione il più possibile. E Netanyahu ha recepito, stamani infatti ha dichiarato: “L’Iran la pagherà, ma in un secondo momento”. Teheran risponde: “per noi la storia è chiusa, obbiettivo raggiunto”.
La collaborazione araba accanto ad Israele 
All’interno di questo conflitto, sia quello a Gaza che con Teheran, i paesi arabi sunniti hanno mostrato la loro inconsistenza politica da una parte come i paesi del Nordafrica, e dall’altra partecipazione attiva a fianco di Israele come Giordania e Arabia Saudita che hanno abbattuto parte dei missili iraniani prima che questi raggiungessero l’obbiettivo. La scelta di campo di questi paesi è dovuto ad un calcolo strettamente politico: sostenere Israele e dunque gli Usa garantisce la continuità dei loro regimi, mentre la sconfitta di Israele e la vittoria della resistenza palestinese e degli alleati come Qatar e Iran significa la fine del loro potere despotico. Gaza dunque è vista come un fuoco di autodeterminazione politica ed armata che può divampare in tutta l’area e generare una nuova primavera araba.
Intanto a Gaza continuano i combattimenti feroci e la scorsa notte per la prima volta dopo quasi 20 anni, i cieli della Striscia erano silenziosi e liberi dai droni israeliani impegnati nel respingere i missili iraniani. Le immagini dei missili iraniani che colpivano Israele hanno rotto un tabù: Israele non è intoccabile e si può sconfiggere o danneggiare pesantemente come la resistenza palestinese sta dimostrando da sei mesi, basta alzare la testa.
Crediti immagine copertina: Reuters

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