Il 15 maggio di quest’anno l’anniversario della Nakba assume un peso maggiore. Quello che ogni anno è il ricordo di un intero popolo oppresso, espulso dalle proprie case, martoriato, violentato e torturato dal giogo colonialista sionista oggi diviene anche il ricordo del genocidio di questo popolo, dei palestinesi. La triste ironia è che il regime sionista presunta il presunto giorno dell’indipendenza proprio il giorno prima, il 14 maggio. Un’ironia questa che tanto ironia non è perché la storia ci insegna che così nacque Israele. Il giorno prima i britannici lasciano la Palestina ed il giorno dopo inizia l’oppressione di massa dei palestinesi da parte degli ”ospiti” sionisti.
Ancora più ironico è che Israele festeggia l’indipendenza il 14 maggio mentre nei fatti da 76 anni Israele dipende totalmente dagli USA, eredi imperialistici del Regno Unito. Così, anche se il 15 maggio di quest’anno diviene anche il ricordo – la Memoria – dell’inizio del genocidio del popolo palestinese ciò che si ricorda non è differente da 76 anni: si ricorda la storia di un popolo – i palestinesi – oppresso per mano di un altro popolo – i sionisti – ubriaco di hubris e razzista supremazia. Riportiamo dunque di seguito il ricordo della Nakba da parte del celebre storico Ilan Pappe, la cui voce può essere considerata forse la più autorevole sul conflitto israelo-palestinese.
Ilan Pappe è uno dei più importanti e riconosciuti storici israeliani, professore e direttore del Centro europeo per gli studi sulla Palestina e co-direttore dell’Exeter Center for Ethno-Political Studies presso l’Università di Exeter. Nella sua analisi pubblicata per il Middle East Eye egli descrive così gli effetti dell’oppressione apartheid israeliana contro i palestinesi.
Ad inizio febbraio 1947, il governo britannico decise di porre fine al mandato sulla Palestina e di lasciare il paese dopo quasi trent’anni di amministrazione.
La crisi economica in Gran Bretagna che seguì alla seconda guerra mondiale portò al potere un esecutivo laburista desideroso di ridimensionare l’impero e di privilegiare piuttosto i bisogni delle isole britanniche.
La Palestina risultò essere un peso e non più una risorsa perché sia i palestinesi che i coloni sionisti stavano in quel momento combattendo contro il dominio britannico e ne chiedevano la fine.
La decisione fu presa in una riunione di gabinetto il primo febbraio del 1947 e il destino della Palestina fu affidato alle Nazioni Unite, che erano allora ancora un’inesperta organizzazione internazionale, già perturbata dagli esordi della Guerra fredda fra Stati Uniti e Unione Sovietica.
Tuttavia le due superpotenze si accordarono in via eccezionale per permettere, senza la loro interferenza, ad altri Stati membri di escogitare una soluzione a quella che fu chiamata “la questione palestinese”.
La discussione sul futuro della Palestina fu trasferita ad uno Comitato Speciale delle Nazioni Unite sulla Palestina (Unscop), composto da Stati membri. La cosa fece infuriare i palestinesi e gli stati della Lega Araba, poiché essi si aspettavano che la Palestina fosse trattata come altri stati che si trovavano sotto mandato amministrativo straniero nella regione, cioè che si fosse permesso ai popoli stessi di decidere democraticamente del loro futuro.
Nessuno nel mondo arabo avrebbe accettato di permettere ai coloni europei nel Nord Africa di giocare un ruolo nel determinare il futuro di paesi di recente indipendenza.
Allo stesso modo, i palestinesi respinsero l’idea che i coloni del movimento Sionista, composto in gran parte da persone che erano arrivati solo due anni prima che l’agenzia ONU per i rifugiati in Palestina (UNRWA) fosse nominata nel 1949, avessero voce in capitolo nel futuro della loro patria.
I palestinesi boicottarono Unscop e, come temevano, il comitato propose la creazione di uno Stato ebreo su metà del loro territorio come parte della risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 29 novembre 1947.
La dirigenza sionista accettò la divisione della Palestina (accoglieva con favore il principio di uno Stato ebraico), ma non aveva in pratica intenzione di aderirvi, poiché metà della terra sarebbe comunque rimasta palestinese, e sarebbe stata loro assegnata solo la metà del paese agognato dal movimento sionista.
Piano strategico per una pulizia etnica
Da oltre trent’anni, gli storici sono venuti in possesso di sufficiente materiale d’archivio su cui è stato tolto il segreto, principalmente israeliano, per chiarire la strategia sionista dal novembre del 1947 fino alla fine del 1948. Ho definito nella mia opera la strategia sionista dell’epoca, un piano strategico per la pulizia etnica della Palestina.
Col passare del tempo, il venire alla luce di altro materiale, e i sempre crescenti e fondamentali progetti palestinesi per una Storia costruita sui racconti orali, hanno sostanzialmente evidenziato quanto fosse adeguato applicare questo termine agli avvenimenti che i palestinesi hanno chiamato la Nabka.
Negli ultimi anni, una vecchia definizione di Sionismo come un movimento coloniale sostenuto da coloni è stata ripresa da studiosi che si occupano di storia della Palestina. Questo può spiegare chiaramente come la dirigenza sionista non avrebbe mai potuto accettare una Palestina divisa.
Come qualsiasi altro movimento coloniale, è stato un movimento di europei emarginati nel loro continente e che dovevano rifarsi una vita altrove, generalmente in luoghi già abitati da altre genti.
Come ad esempio per il genocidio dei nativi americani in Nord America, il bisogno di eliminare le popolazioni indigene è stato il segno distintivo di simili movimenti.
Possedere quanta più terra possibile con quanti meno nativi possibile era già stato un tema centrale del movimento e dell’ideologia sionista fin dai suoi primordi. Il dominio britannico aveva impedito ogni significativo possesso di terra (meno del sei percento delle terre palestinesi erano di proprietà sionista nel 1948). Ma sulla terra acquistata dai sionisti, principalmente dall’élite palestinese e da proprietari terrieri che vivevano all’estero, i coltivatori locali furono etnicamente espulsi con l’approvazione delle autorità britanniche.
La dirigenza sionista cominciò a pianificare la pulizia etnica della Palestina nel febbraio del 1947 e le prime operazioni ebbero luogo un anno più tardi sotto gli occhi delle autorità britanniche provviste di mandato.
La dirigenza sionista aveva bisogno di affrettarsi alla pulizia etnica dei palestinesi nel febbraio del 1948, cominciando con la forzata rimozione di tre villaggi sulla costa fra Giaffa e Haifa. Gli Stati Uniti ed altri membri delle Nazioni Unite avevano già cominciato a mettere in dubbio la validità di un piano di divisione e cercavano soluzioni alternative. Il dipartimento di Stato americano propose un’amministrazione fiduciaria internazionale sulla Palestina allo scopo di dare altro tempo per ulteriori negoziati.
Cosa accadde sul campo
Così, la prima cosa che la dirigenza sionista fece fu di passare ai fatti anche prima della fine ufficiale del mandato (previsto per il 15 maggio del 1948). Ciò significò scacciare i palestinesi dalle aree assegnate dalle Nazioni Unite per lo Stato ebraico così come impadronirsi di quante più città palestinesi fosse loro possibile.
Non c’era possibilità di confronto fra palestinesi e gruppi militari sionisti. Arrivarono alcuni volontari arabi, ma poterono ben poco per difendere i palestinesi dalla pulizia etnica. Il mondo arabo attese il 15 maggio prima di inviare truppe in Palestina.
Che i palestinesi fossero di fatto indifesi fra il 29 novembre 1947 (quando fu adottata la risoluzione ONU sulla divisione) e il 15 maggio del 1948 (il giorno che segnò la fine del mandato e in cui truppe dagli stati arabi confinanti giunsero per cercare di salvare i palestinesi) non è un mero fatto cronologico, esso smonta categoricamente la principale affermazione della propaganda israeliana sulla guerra, ossia che i palestinesi divennero profughi perché il mondo arabo invase la Palestina e disse loro di partire; un mito che molta gente nel mondo ancora oggi crede vero.
Secondo questa narrazione, avesse il mondo arabo evitato di attaccare Israele, i palestinesi avrebbero potuto evitare il loro destino di essere profughi ed esiliati.
Quasi un quarto di milione di palestinesi erano già profughi prima del 15 maggio del 1948 ed un mondo arabo riluttante mandò i suoi eserciti nel tentativo di salvare gli altri.
Quasi tutti i palestinesi che vivevano ad Haifa e a Giaffa furono cacciati con la forza dalle loro case e le città di Bisan, Safad e Acri furono completamente spopolate. I villaggi nei dintorni subirono una sorte simile. Nell’area intorno alle pendici occidentali delle montagne di Gerusalemme, decine di villaggi furono ripuliti etnicamente, e in alcuni casi, come accadde a Deir Yassin il 9 aprile del 1948, le espulsioni furono accompagnate da massacri
Le peggiori atrocità israeliane
L’intervento degli eserciti arabi – Egitto, Siria, Giordania e Libano – nel Maggio del 1948 fu una seria sfida per il nuovo stato di Israele. Ma in quel tempo, la capacità militare della comunità israeliana era considerevolmente aumentata (con l’aiuto di armi dal blocco orientale che furono acquistate, con l’approvazione sovietica, dalla Cecoslovacchia, che era in possesso di un considerevole quantitativo di armi della seconda guerra mondiale lasciate dai sovietici e dai tedeschi. L’Inghilterra e la Francia in quel tempo applicarono l’embargo per le forniture militari per entrambi gli schieramenti.)
Il risultato fu che le forze israeliane furono in grado di compiere operazioni sui due fronti: contro gli eserciti arabi, e poi, continuando l’opera di pulizia etnica, prendendo di mira in maggioranza le aree concesse dalla ripartizione delle Nazioni Unite allo stato arabo.
In modo particolare, l’operazione in Alta Galilea ha registrato alcune tra le peggiori atrocità commesse dall’esercito israeliano durante la Nabka: in parte a causa della disperata resistenza di gente che già sapeva ciò che la sorte le avrebbe riservato sotto l’occupazione israeliana; e in parte a causa della fatica delle forze di occupazione che persero ogni inibizione nel modo di trattare le popolazioni civili.
Nel massacro di al-Dawayima, presso Hebron, si calcola che 455 palestinesi, la metà dei quali donne e bambini, furono assassinati dai soldati israeliani.
Due zone della Palestina storica sfuggirono al destino della pulizia etnica. L’area divenuta nota come Cisgiordania fu occupata quasi senza combattimenti da forze giordane ed irachene. Ciò fu in parte per il tacito accordo fra Israele e la Giordania secondo il quale, in cambio di questa annessione, la Giordania avrebbe giocato un ruolo secondario nello sforzo arabo globale di salvataggio della Palestina.
Tuttavia, per la pressione israeliana dopo la Guerra, la Giordania concesse, durante i negoziati per l’armistizio, parte di quella che avrebbe dovuto essere la sua Cisgiordania. Questa area è chiamata Wadi Ara, e collega il Mediterraneo col distretto di Jenin.
Questa annessione fu problematica per uno stato coloniale come quello israeliano. Possedere più territorio significava anche avere più palestinesi nello stato ebraico. Così, per ridurre il numero di palestinesi residenti a Wadi Ara, si procedette a minori pulizie etniche.
Questo legame fra geografia e demografia condusse il primo ministro. David Ben Gurion, a respingere la pressione dei suoi generali per occupare la Cisgiordania (questi generali sarebbero diventati i politici che spinsero per l’occupazione della Cisgiordania nella guerra del 1967 per compensare l’”errore” della mancata occupazione del 1948).
La Nakba in corso
Israele lasciò sola un’altra area, divenuta famosa come la striscia di Gaza. Si trattava di un rettangolo di terra artificiale creato come enorme luogo di destino per centinaia di migliaia di profughi sradicati dalle zone meridionali della Palestina, e che permise all’Egitto di avere la sua area di occupazione militare.
Sulle rovine dei villaggi palestinesi, Israele costruì insediamenti (molto spesso usando la versione israelitica del nome arabo; così Saffurya divenne Tzipori e Lubya divenne Lavi) o vi creò dei parchi, cercando di cancellare ogni traccia della cultura, della vita e della vita che aveva distrutto in nove mesi nel 1948.
Metà della popolazione palestinese divenne profuga, e centinaia di villaggi furono demoliti e le sue città furono de-arabizzate dalle forze di occupazione.
La Nabka distrusse un paese insieme alla vita e alle aspirazioni della sua gente. L’enorme capitale umano che la società palestinese aveva sviluppato fu, per mezzo dei profughi, investito in altri paesi arabi, contribuendo al loro sviluppo culturale, educativo ed economico.
Il messaggio che giunse ad Israele dal mondo fu che la pulizia etnica della Palestina, ben nota in Occidente, era accettabile; principalmente come compensazione per l’Olocausto e iI secoli di antisemitismo che avevano imperversato in Europa.
Quindi Israele ha continuato la sua pulizia etnica dopo il 1967, quando ancora una volta ulteriore territorio occupato portò sempre più gente “indesiderata”. Questa volta la pulizia etnica è stata incrementata, e continua anche oggi.
Tuttavia, iI palestinesi sono ancora lì, mettendo in mostra un’incredibile resilienza e resistenza – insieme alla continua Nabka, c’è una persistente Intifada e, fino a quando Israele non risponderà per quanto ha fatto e sta facendo, la colonizzazione continuerà, così come la lotta anticolonialista contro di lui.
La sola via possibile per rimediare ai mali passati è il rispetto del diritto al ritorno dei profughi palestinesi e la creazione di uno stato in tutta la Palestina storica basato sui principi di democrazia, uguaglianza e giustizia sociale.
Questo deve essere costruito attraverso un processo restitutivo che compensi le persone per la loro perdita della terra, della loro storia, della loro vita con un nuovo stato e con l’aiuto del mondo.
Articolo originale pubblicato su Middle East Eye