I social media hanno cambiato tutto, anche il modo in cui le guerre hanno luogo. Il conflitto a Gaza rappresenta in questo senso il primo vero conflitto trasmesso in diretto. Il massacro, le urla, le lacrime, le scene dei combattimenti ripresi dalle go-pro e dai droni arrivano a casa nostra. Il tutto ha del distopico ma al contempo un potenziale inedito: siamo esposti alla reale sofferenza della guerra e reagiamo con empatia. A conti fatti anche noi siamo a Gaza.
Queste immagini, che nelle guerre passate le leadership dei paesi invasori hanno avuto premura di nascondere agli occhi della popolazione rappresentano una minaccia politica reale per le mire espansionistiche di quegli Stati che della guerra hanno fatto un business importante, Stati Uniti per nominarne uno. Per questo non stupiscono i commenti della leadership statunitense che alcuni whistleblowers hanno fatto trapelare di recente e secondo i quali la sensibilità della popolazione causata anche dalla facile accessibilità alle immagini degli orrori di Gaza è una minaccia perché renderà molto più difficile giustificare qualsiasi guerra in futuro. Insomma, quello che sarebbe un’utopia per la popolazione- la fine delle guerre grazie alla pressione sociale e la sensibilità del popolo – è un incubo per l’imperialismo che dovrebbe dire addio alle risorse facilmente accessibili degli altri paesi che in passato si potevano conquistare tacciano l’altro, il diverso, il barbuto dalla pelle scura, di essere cattivo e diverso da noi. Oggi con Gaza scopriamo che i cattivi non erano i barbuti, le donne col velo, ed i bambini dalla pelle scura che corrono scalzi e spensierati. I cattivi sono stati i bianchi sbarbati che abbigliati di elegante giacca e cravatta ordinavano di bombardare e fare a pezzi gli innocenti comodamente dalla loro poltrona o dai loro F-16.
L’arma dei social media però è qualcosa che i palestinesi hanno imparato a usare per difendersi dopo aver pagato un caro prezzo negli anni. I periodici massacri che Israele ha definito una semplice ”estirpazione periodica delle erbacce” e che negli anni ha mietuto migliaia di vittime ci sono stati resi visibili grazie alle immagini che proprio i palestinesi hanno condiviso. Loro che al mondo hanno chiesto fin da subito di non distogliere lo sguardo e di essere partecipi di quello che loro vedono ogni giorno.
Ma ci siamo abituati anche a quelle immagini. Piangevamo per qualche giorno, poi i bombardamenti finivano, e la nostra empatia anche. Questa volta con Gaza però ci ritroviamo di fronte ad un nuovo fenomeno, un nuovo modo di usare i social. Un modo che richiede ai palestinesi ancora più forza e coraggio, un modo che vede i palestinesi mascherare la loro sofferenza, fingersi divertiti e dalla parte dell’oppressore per fare cadere la maschera in diretta e svelare al mondo quella malvagità che l’establishment ci dice essere circoscritta e molto limitata nella società israeliana ma che i palestinesi ci hanno mostrato come verità di massa.
Il fenomeno vede gli influencer palestinesi utilizzare quelle piattaforme di chat online che permettono di incontrare delle persone casualmente. Con alcuni settaggi è possibile incontrare persone di un’area circoscritta, i territori israeliani in questo caso, e fingersi americani. Così il palestinese influencer chiede da dove venga l’interlocutore che risponde ”da Israele”. Da lì inizia l’orrore. Dai combattenti dell’esercito israeliano ai giovani studenti israeliani delle medie o del liceo la reazione è la stessa: odio, razzismo, piacere sadistico per la morte degli innocenti. E questo fenomeno non è circoscritto. Gli influencer che eseguono questo esperimento sociale sono cresciuti negli ultimi mesi – basti menzionare casi virali come Belal Nassar (@Bfendyy su Instagram) e Hamzah Saadah (@Asborber sui social). Gli interlocutori sono centinaia con maratone di ore e ore di streaming sfiancanti in cui gli influencer indossano la pesante maschera del male fingendosi dalla parte dell’interlocutore che matematicamente si rivela nella sua malvagità. Così nel caso di chiamate con combattenti israeliani gli influencer chiedono sorridendo ”quanti ne hai ammazzati”? L’interlocutore israeliano dà un numero che si aggira da un paio a una dozzina e poi la domanda ” e bambini? Ne hai uccisi?”. L’interlocutore rilassato dal tono amichevole dell’influencer risponde ”sì, tanti. Bambini di Hamas e donne di Hamas.”. Il caso, come menzionato, riguarda anche giovanissimi isreliani che dalle aule delle scuole si connettono alle piattaforme. Rispetto ai combattenti israeliani loro però sono più ferrati di social media e riconoscono non raramente gli influencer palestinesi. Ciò che spaventa è che nemmeno questo agisce da deterrente e così anche i più giovani, vittime di quel sistema suprematista, iniziano a minacciare di morte l’influencer commentando con fare sadistico nei confronti della sofferenza degli innocenti di ogni età fatti a pezzi e bruciati vivi a Gaza.
I social media non solo hanno così cambiato il modo in cui percepiamo la guerra, ma hanno anche il potenziale di alterare il corso della storia, rendendo sempre più difficile giustificare i conflitti armati e promuovendo una maggiore empatia e consapevolezza globale. Nel caso della Palestina, questa trasformazione rappresenta una sfida diretta per il regime israeliano, che si ritrova con una reputazione dilaniata ed una pressione internazionale e una condanna globale senza precedenti nei confronti delle sue politiche oppressive e violente.