I musulmani italiani – una comunità stimata intorno ai 3 milioni di persone tra cui circa un milione di elettori – si avvicinano alla scadenza delle elezioni europee – come ad ogni scadenza elettorale – in modo non dissimile dagli italiani non musulmani: con poche idee e poco interesse. Ad ogni scadenza elettorale – locale, nazionale, europea – nelle moschee, nelle associazioni, tra i musulmani italiani si accende stancamente il dibattito: votare? Non votare? E se si per chi?
Per non ricominciare tutto da capo ad ogni tornata elettorale ricordiamo che sulle colonne di questo giornale due anni fa Usama El Santawy (La Luce 29 luglio 2022) rispondeva in modo chiaro e convincente alla prima domanda e i suoi argomenti restano tuttora validi. Al che fare dedicava invece solo un breve paragrafo nel quale si richiamava implicitamente a due alternative: operare per la formazione di un partito islamico in cui incanalare il voto dei musulmani o organizzare la partecipazione dei musulmani ad una delle nuove forze politiche in formazione onde orientarla “eticamente prima ancora che politicamente” verso quei valori in cui i musulmani si riconoscono e dei quali accettano – o desiderano – la rappresentanza politica.
Santawy scarta la prima soluzione e ritiene preferibile la seconda. Si tratta di una posizione per molti versi condivisibile ma il punto non è questo: bensì esso sta nel fatto che alla vigilia di questa tornata elettorale così come di quelle precedenti i musulmani non dispongono di nessuna delle due opzioni e probabilmente sarà lo stesso almeno ancora per alcune tornate elettorali. Alla fine ciascuno farà per sé: voterà per qualcuno che conosce, per simpatia, per tradizione e chi non troverà nulla di suo gusto non voterà affatto. Proprio su quest’ultimo punto conviene soffermarsi. Quanti musulmani, titolari del diritto di voto, non lo esercitano? In altri termini, prima ancora di chiederci come votano i musulmani sarebbe importante sapere quanto pesa l’astensionismo tra i musulmani. Incominciando subito a chiarire un punto: per “astensionismo” qui si intende propriamente il “non-voto”, cioè il non andare al seggio a depositare una scheda nell’urna, che è cosa diversa da mettere nell’urna una scheda bianca o nulla.
1.Il non-voto. In Italia la percentuale di votanti ha superato sempre il 90% dal 1948 al 1976 quando è stata del 93%. Nella seconda metà degli anni Settanta inizia un rapido calo: nel 1983 si scende all’88%,, nel 2001 siamo all’81%, nel 2013 al 75%, nel 2022 eravamo arrivati al 63% di votanti. Il che significa che oltre un terzo dei cittadini aventi diritto di voto non lo esercitano. Ora la prima domanda che dovrebbe interessarci è: e i musulmani? La percentuale degli astensionisti nella ummah è uguale, inferiore o superiore a quella relativa alla cittadinanza italiana complessiva? Esistono metodologie di tipo cartografico per arrivare a delle stime ma al momento non risultano stime di sorta, il che fa pensare che ci sia un certo disinteresse per la questione. E soprattutto vige ormai una certa confusione di idee, non soltanto tra i musulmani.
Le giovani generazioni – quelle che non possono avere memoria storica – pensano che non andare a votare sia l’unica alternativa se il menu proposto dal ristorante “Elezioni democratiche” fa loro schifo dalla prima all’ultima riga. Oppure, se il ristorante in questione ti obbliga a scegliere tra una serie di menu fissi e preconfezionati, in cui accanto ad alcuni piatti che sono di gradimento del cliente egli viene obbligato a scegliere anche piatti che gli sono assolutamente indigesti. Con l’aggravante che mentre in un normale ristorante ti puoi rassegnare a compare e pagare il menu fisso non essendo però obbligato a consumare tutto quanto compreso nel pacchetto, la scelta dell’elettore – che non è un cliente – contribuirà a fare ingoiare a lui e alla comunità civica di cui fa parte piatti graditi e piatti disgustosi insieme. Fuor di metafora: quando qualunque partito disponibile sul mercato elettorale ha in programma politiche che condividi (per esempio in materia di famiglia) e altre che consideri dannose (per esempio in materia di libertà religiosa) – o viceversa beninteso. O quando ti offrono liste bloccate che ricordano le pratiche di certi grandi magazzini: cerchi un paio di calzini neri e non solo ti obbligano a comprarne tre paia ma nelle tre due paia sono neri e un paio è rosso.
Messa così, la conclusione ovvia da trarre sarebbe: io in quel ristorante non ci metto piede. Ed è qui che cadiamo nella trappola della metafora del “mercato” elettorale: il cittadino non è la stessa cosa del cliente, le sue libertà ed i suoi vincoli sono di natura diversa. Il cittadino, vale a dire colui che gode dei diritti politici, è parte di un sistema istituzionale, ed il suo comportamento influenza questo sistema comunque – si tratti di un fare o di un non fare, di azioni od omissioni. Proprio per questo fin dalla scrittura della Costituzione italiana si è sempre parlato del voto come di un diritto e di un dovere del cittadino. La legge applicativa del questo principio (il TU del 1953) prevedeva delle sanzioni per il mancato esercizio del diritto di voto senza giustificazione adeguata, tra cui la menzione nel certificato di buona condotta. Questa norma è stata abolita soltanto nel 1993: e questa data dovrebbe perlomeno suonare un piccolo campanello di allerta. Per chi non era nemmeno nato spieghiamo: tra la fine degli anni ’80 (data emblematico il 1989) e i primi anni Novanta cambia l’ordine mondiale – con la caduta del muro di Berlino – cambia l’ordine istituzionale italiano – con la fine della Prima Repubblica – e cambia l’ordine politico europeo con l’entrata in vigore degli accordi di Schengen e Maastricht. Come mai proprio a ridosso di questi eventi epocali viene meno il bisogno di incentivare l’esercizio del diritto di voto?
2.Teoria dell’apatia. Partiamo da lontano. Nel 1954, tre celebri politologi statunitensi (Bernard Berelson, Paul Lazarsfeld e William McPhee) in un libro dedicato al fenomeno elettorale sostenevano che “un po’ di apatia politica fa bene alla democrazia”. Secondo loro una democrazia di massa sarebbe ingestibile se tutti i cittadini presentassero un alto gradi di coinvolgimento politico. Era il secondo dopoguerra, gli americani stavano importando la scienza politica in Italia, dove il fascismo l’aveva bandita, ed insieme ad essa ampie dosi di ideologia politica.
Essa veniva ripresa negli anni Ottanta da Samuel Huntington (si proprio lui, quello dello scontro di civiltà) secondo il quale l’efficacia di un sistema politico democratico solitamente richiede una certa misura di apatia e non coinvolgimento di alcuni gruppi ed individui che restano ai margini del sistema: non sarà una bella cosa ma è utile.
Ebbene, dalla fine degli anni Ottanta una serie di attori – politici, magistrati, intellettuali – hanno fatto del loro meglio per incentivare un po’ di sana apatia negli elettori italiani troppo appassionati di politica. La magistratura ha decapitato l’intera classe politica della Prima Repubblica. La stampa si è uniformata al discorso anti-casta (quello sì populista) che gli esperti accademici si son ben guardati dal contrastare. In nome della lotta alla corruzione e alla “casta” politica si è abolito il voto di preferenza e si è diminuito il numero di deputati: vale a dire si sono privati gli elettori di alcuni diritti rilevanti in materia di rappresentanza. In nome della governabilità ci si è spostati dal proporzionale al maggioritario riducendo ulteriormente le opzioni dell’elettore. E infine si è semplicemente cessato di dare notizia delle schede bianche che pure continuavano ostinatamente a crescere: nel 2001 erano 1,7 milioni. Schede bianche significa elettori che si sono presi la briga di andare al seggio per depositare nell’urna una scheda che non avrebbe contribuito ad eleggere nessuno. Una scheda con la quale non si “vince” nulla. Perché per l’elettore, che non è un cliente e nemmeno un giocatore, era importante esprimere una opinione, ovvero manifestare la propria insoddisfazione.
La cosa aveva un senso finché le schede bianche venivano prese sul serio: un segnale di cui tenere conto. Parlare di “partito del non-voto” mettendo insieme schede bianche, nulle e astensioni è ingannevole: si mette sullo stesso piano chi partecipa a tutti gli effetti e chi magari è del tutto indifferente. La controprova sta in un dato interessante: nel 2006 le schede bianche in continua crescita crollano tanto da far aprire una inchiesta su eventuali brogli. La spiegazione è più semplice: la nuova legge elettorale abbandona l’uninominale e torna al proporzionale e al voto di partito, temperato da un premio di maggioranza. Ovvero cambia la struttura del menu del ristorante. D’Alimonte, grande specialista in materia, spiegava che “il nuovo sistema favorisce la presentazione di liste di tutti i tipi e per tutti i gusti. E tra l’altro con soglie di sbarramento molto basse è diminuito anche il rischio di votare per partiti che avrebbero potuto non ottenere seggi.” In altri termini, il cittadino elettore, almeno in Italia, ci tiene molto a che la sua voce sia rappresentata, sia pure in modo ultra minoritario: il menu preconfezionato non gli va giù. Un atteggiamento decisamente più passionale che apatico.
3.I partiti personali. La passione politica è connaturata all’esistenza dei partiti: partito significa al contempo dividersi e unirsi. Dividersi secondo linee ideologiche o ideali; unirsi per superare le preferenze strettamente individuali. Per l’elettore italiano, erede di una tradizione civica secolare, il partito è più importante del leader, al punto che gli elettori hanno accettato in massa di vedersi privare del diritto di esprimere tre preferenze (referendum del 1991) e hanno addirittura accettato le liste bloccate pur di avere un’ampia scelta di partiti. Del resto il puritano Partito comunista vietava ai propri candidati di fare campagna elettorale per sé stessi. E in generale era considerato comunque moralmente preferibile fare campagna per il proprio partito: fare campagna per sé stessi rientrava nelle pratiche notabiliari nella migliore delle ipotesi, clientelari nella peggiore.
Come mai, possiamo dunque chiederci, a fronte di queste profonde radici storico-culturali, hanno preso il sopravvento i cosiddetti “partiti personali”, aggregazioni che si formano intorno alla figura di un capo condottiero che ne è al contempo il fondatore e la ragione d’essere? Il nuovo ordine mondiale ed occidentale che si struttura alla fine degli anni Ottanta vede la sostituzione dei “partiti di visione del mondo” con “partiti di occupazione delle cariche” per riprendere la classica distinzione del sociologo Max Weber. In questi nuovi partiti il capo carismatico ha un ruolo di primo piano. Basta vedere cosa succede durante questa campagna elettorale per le europee. Quanti elettori saranno in grado di leggere i programmi di tutti i partiti che si presentano? Qualcuno voterà “per appartenenza”, più o meno come si tifa per una squadra di calcio, ma questo tipo di voto è diventato sempre più raro con la dissoluzione dei grandi partiti ideologici e la creazione di partiti personali che nascono e muoiono da una tornata elettorale all’altra. Molti invece voteranno per una formazione che identificano con un – o una – leader, tanto è vero che a capo di diverse liste oggi troviamo nomi di leader di partito o politici di primo piano che non hanno nessuna intenzione di optare per il Parlamento europeo, una volta eletti, ma servono semplicemente da richiamo. Per non parlare dei candidati che riempiono le nostre strade con gigantografie dove sotto la loro immagine campeggiano promesse impossibili, dall’occupazione qualificata per i giovani alla sanità davvero gratuita, senza che venga spiegato non solo come faranno a fare queste cose ma anche perché non lo hanno fatto fino adesso.
Nella Tunisia post-coloniale il grande Ahmed Mestiri, uno dei protagonisti della lotta per l’indipendenza, andando controcorrente rispetto alle tradizioni notabiliari e le derive neopersonalistiche del paese, diceva che i Tunisini “devono abituarsi a votare per un partito e non per una persona” per conseguire una democrazia matura. Noi in Italia abbiamo fatto esattamente il contrario.
4.Allora perché votare? Dobbiamo innanzitutto sbarazzarci del luogo comune ormai invalso secondo cui solo votare ha delle conseguenze mentre non votare esprime una protesta contro il sistema. Come ho cercato di dimostrare prima, ambedue gli assunti sono falsi anche se fanno comodo ad alcuni gruppi politici o di interesse. Anche il non-voto ha ripercussioni su chi alla fine governa. Favorirà certi interessi che magari non vorremmo proprio favorire. In fin dei conti pochi elettori rendono le elezioni più controllabili e prevedibili cosa che sicuramente piace ai mercati ma non produce necessariamente un paese migliore. Pochi votanti significa anche che un seggio “costa” meno in termini di consenso: un notabile in grado di organizzare una sua base elettorale di conoscenti e amici, un influencer bravo ad usare i social network, potranno ottenere un seggio senza bisogno di convincere nessuno oltre la propria cerchia. Infatti uno dei paradossi della lotta contro la “casta” potrebbe essere quello di rendere gli eletti una casta ancora più chiusa. I musulmani, per il solo fatto di presentarsi compattamente come votanti – ovvero come cittadini che si recano alle urne – potrebbero inserire il loro granello di sabbia in questo meccanismo.
E’ vero d’altro canto che un tasso molto basso di partecipazione al voto ha per conseguenza, a lungo andare, di delegittimare gli eletti. E l’Europa in questo momento – con due guerre in corso alle sue porte – ha grandemente bisogno di legittimazione. Questo si esprime anche in certe inquietudine sul possibile tasso di astensione e con appelli insistenti per portare gli elettori, soprattutto i giovani e i nuovi elettori al voto. Tuttavia vi è una regola generale da osservare: se si vuole contestare la legittimità di un organismo non basta non recarsi individualmente alle urne. Occorre invitare collettivamente al boicottaggio (come si è fatto in occasione di alcuni referendum). Ha senso che i musulmani che appena si stanno affacciando alla politica in Italia, la cui comunità conta molti membri giovani che hanno appena avuto accesso ai diritti politici, invitino a non usarli? Evidentemente no, soprattutto in un momento in cui la ummah si sta battendo per un ampliamento della cittadinanza. E se i meccanismi di formazione dell’opinione pubblica e dell’offerta elettorale possono essere difettosi vi è tuttavia la garanzia che le libertà fondamentali nell’espressione del voto sono rispettate. Insomma non siamo in Tunisia dove un dittatore controlla tutto – forze armate, magistratura, istanze elettorali, mass media – e dove il boicottaggio, ufficialmente proclamato da molte forze politiche, è una scelta obbligata. Per i musulmani in Italia appare più adeguato lo slogan degli attivisti tunisini quando il paese ha conosciuto allora le prime elezioni democratiche della sua storia: “Votate chi volete ma votate”.
5.Quale elettorato musulmano? Autopercepirsi e autodefinirsi come un elettorato di votanti effettivi per i musulmani è un punto di partenza niente affatto scontato. Benché ci siano musulmani arrivati in Italia fin dagli anni Sessanta, che qui hanno studiato, lavorato, fondato famiglie, e altri che provengono da famiglie con radici tutte italiane (de souche come dicono i francesi) che quindi godono da sempre dei diritti politici, tuttavia un elettorato musulmano consistente è faccenda recente, tanto è vero che esso non è ancora stato messo a fuoco né dai politici né dagli studiosi. I primi si limitano a qualche sporadico momento di dibattito organizzato e all’inclusione di qualche musulmano nelle liste. I secondi non sembra abbiamo prodotto a tutt’oggi alcuno studio consistente sul volto musulmano (questo giornale sta facendo del suo meglio ma ovviamente non dispone degli stessi mezzi dell’accademia). Soprattutto, i musulmani stessi non si percepiscono né si identificano come elettori. Il giorno in cui la comunità venisse percepita come una comunità in cui ogni voto disponibile viene speso i decisori politici ne terrebbero maggior conto.
I musulmani potrebbero allora incominciare a far pesare politicamente la loro presenza intorno ad alcuni nodi che finora hanno cercato di risolvere per via negoziale tra organismi amministrativi da un lato, e rappresentanti delle comunità dall’altro. Una via che spesso ha bypassato gli eletti i quali sicuramente danno degli input ma non ci mettono la faccia. Si tratti della questione dell’Intesa (che si definisce a livello nazionale) o di quella delle moschee (che coinvolge regioni e comuni), potrebbero incominciare a chiedere conto direttamente del proprio operato ai singoli candidati, e non solo in termini di programmi (“promesse”) ma anche in termini di rendicontazione (accountability), una delle cose più trascurate dalla politica in Italia. L’elettorato musulmano potrebbe contraddistinguersi proprio per il suo perseguimento concreto della rendicontazione.
Un elettorato musulmano, cosciente di sé non dovrebbe mobilitarsi per questioni che riguardano soltanto la comunità islamica italiana ma anche per questioni più generali di rilevanza nazionale e internazionale. In questo momento la questione della Palestina potrebbe essere la discriminante basilare del voto dei musulmani sia in termini di forze politiche che di singoli candidati. Sarebbe la volta giusta perché l’elettorato musulmano incominci a venire percepito come un elettorato in grado di fare la differenza.
Per perseguire questi obiettivi, i musulmani in qualità di elettori dovrebbero mettere in atto la pratica squisitamente islamica della shura ovvero “consultarsi vicendevolmente su quel che li concerne” (Quran 42:38) per trovare la migliore soluzione possibile a fronte di questioni complesse e controverse: quali formazioni politiche? Quali candidati? Quali priorità? Quali linee rosse? Ne risulterebbe un elettorato con un livello di informazione superiore alla media, conformemente all’obiettivo che ci dobbiamo porre di essere la migliore delle comunità.
Dalla consultazione reciproca dovrebbe emergere un altro principio squisitamente islamico: quello del male minore. Calato concretamente all’interno della necessità di scegliere tra formazioni politiche le quali tutte, senza eccezione, contengono nei loro programmi punti inaccettabili per un musulmano, occorrerà decidere e scegliere quali sono i meno gravi, onde non farci corresponsabili della realizzazione di quelli più gravi. Con la consapevolezza (lo ribadiamo) che non votare non ci assolve da questa responsabilità. Questa posizione ricorda quella che Max Weber definiva “l’etica della responsabilità” – cioè il prendere in considerazione le conseguenze del proprio agire, non limitandosi alla purezza dell’intenzione. Se per Max Weber si trattava di un’etica laica è facile desumere quanto più potente sia il principio di responsabilità per il musulmano il quale sa che di tutto il suo agire in questo mondo sarà chiamato a rispondere ad Allah.
Conclusione: e gli eletti? Andare a votare, per i musulmani, è dunque cosa che richiede un impegno non indifferente ma al quale non può sottrarsi. Potrebbe facilitare questo compito una aggregazione degli eletti musulmani – in carica attualmente o in passato – nelle diverse assemblee elettive che costituiscono l’architettura politico-istituzionale dell’Italia, dai consigli sub-comunali fino al Parlamento europeo. Rappresentano, se possibile, un insieme ancora più sconosciuto dell’elettorato musulmano e che suscita ancora meno interesse negli studiosi. Le esperienze dei (pochi) eletti, fino adesso, a livello nazionale o in città importanti, ci arrivano con un nutrito contorno di controversie e polemiche, mentre di quelle a livello locale non si sa quasi nulla. Sarebbe più che ora che all’interno della comunità islamica si creasse una aggregazione degli eletti – di qualsiasi livello ed in qualsiasi lista – finalizzata ad una conoscenza reciproca e ad un confronto con la comunità intera, ad uno scambio di esperienze e ad una condivisione di know-how e sarebbe responsabilità dei membri della comunità che ne hanno la possibilità, per esperienza diretta o per competenze professionali, di assicurare agli eletti, soprattutto a livello locale, supporto sotto forma di consulenza ed accompagnamento. E sarebbe anche bene che di una simile aggregazione facessero parte coloro che generosamente si sono impegnati nella competizione elettorale anche senza risultare eletti, ché anche la loro esperienza sarà preziosa.
Come musulmani, infatti, non dovremmo appiattirci sul discorso della “casta” ma mostrarci in grado di proporre un modo diverso di intendere e fare politica.