Un Manifesto dell’islam italiano che aspira all’appartenenza culturale e schiva la politica

Fresco di stampa, l’ultimo lavoro di Francesca Bocca-Aldaqre – che ne ha già diversi al suo attivo – si presenta con un titolo ambizioso, che incuriosisce ma rischia di arenare il dibattito sulla sua appropriatezza: “Manifesto dell’islam italiano”. Fin dalla prima pagina del volume Bocca-Aldaqre esplicita a quale tipo di manifesto si ispira: il manifesto artistico e specificamente il Manifesto del Dadaismo di Tristan Tzara (nota a piè pagina 1 ). Ed esplicita anche il tipo di lavoro che si propone di fare: un lavoro di “curatela” – nel senso del lavoro fatto da “curatore” di una mostra d’arte – così come lo intende un certo Hans Ulrich Obrist (nota a piè pagina 2) che in una intervista al Guardian di una decina d’anni fa dice più o meno: “Il curatore preserva il patrimonio artistico, seleziona opere nuove, connette alla storia dell’arte e mette in ordine e in mostra i lavori.”

Sembra che lo scopo di Francesca Bocca, con questo agile volumetto, sia proprio questo, basta sostituire il termine “artistico” con il termine “islamico”. Francesca Bocca vuole tenere in vita il nostro patrimonio islamico, selezionare contenuti nuovi, connettere l’islam (italiano) contemporaneo alla storia dell’islam (italiano) e mettere in mostra tutto questo per un pubblico di massa come quello che oggi visita le mostre d’arte e le vive come esperienza e non semplice rassegna di oggetti.

Obiettivo legittimo e interessante ma se chi scrive ha dovuto dedicare una mezz’oretta di ricerche su Internet per capirlo, perché l’autrice si è limitata a lasciar cadere due noterelle a piè pagina per iniziati, c’è qualcosa che non funziona. Per  chi scrive Francesca Bocca? Prima di provare a rispondere vediamo cosa scrive. 

In una serie di brevissimi capitoletti l’autrice argomenta che: a)l’islam in Italia ha radici secolari (i “rinnegati”); b) che annovera nella modernità importanti italiani de souche (Leda Rafanelli, Amedeo Guillet); c) che esistono intersezioni tra la letteratura italiana e quella islamica (dal Cantico di Francesco d’Assisi  alla Commedia di Dante; d) che le due culture condividono simili problematiche identitarie (“Perché non siamo popolo” ); e) che l’immagine dell’islam che arriva all’opinione pubblica italiana tanto dai media quanto dall’accademia è una immagine quasi sempre gravemente distorta nel primo caso e spesso scientificamente discutibile nel secondo. Connette cioè l’islam italiano alla sua storia.

In altri capitoli descrive invece alcune caratteristiche attuali della comunità: la sua marginalità fisica che si manifesta in quella dei suoi luoghi di culto e dei suoi cimiteri; la sua marginalità amministrativa che produce tanto all’interno quanto all’esterno della comunità confusione tra cittadinanza e identità. Dedica un capitoletto all’islam online che speriamo stimoli ulteriori approfondimenti in quanto si tratta di una delle rarissime voci che denunciano i guasti di una identità islamica italiana costruita sui social, identità “aspirazionale” o “estetica”, comunque inautentica. E apre squarci sulla categoria dei convertiti all’islam, altro tema che merita ulteriori indagini e discussioni: basti pensare all’insistente uso dell’espressione “apertamente musulmani” che rivela l’esistenza di musulmani segreti (l’autrice si sofferma in particolare sull’accademia).

Ci viene qui offerta una sociologia dell’islam: Francesca Bocca organizza e mette in mostra temi e contenuti molti dei quali non sono nuovi ma hanno il grande merito di essere narrati – finalmente! – da una voce interna all’islam. 

Tuttavia lo stile allusivo e i riferimenti colti o di nicchia scelti dall’autrice comportano il rischio che quanti vogliano conoscere l’islam, tra i nostri giovani e tra gli italiani meglio intenzionati, alla fine vadano a leggersi i soliti Allievi e Guolo, e quando va meglio Campanini e Cardini. Torniamo allora alla domanda iniziale: per chi scrive Francesca Bocca? Scrive per delle élites sia musulmane sia non musulmane (e forse di più per le seconde, non fosse che perché la platea è più vasta) e questo è legittimo. Ma scrive in posizione difensiva. Se da un lato vi è lo sforzo di mostrare quanto i musulmani padroneggino autori, contenuti e metodi della cultura italiana alta, accademica e non (“letture comuni, un vocabolario condiviso, gli stessi personaggi”) – non a caso l’autrice si confronta con i più mainstream, i Cacciari, i Severino, gli Eco – dall’altro vengono espunti alcuni temi scomodi. Cercando di esorcizzare le grandi paure del discorso islamofobo – le radici giudaico-cristiane, la grande sostituzione, la “perdita della nostra identità di popolo” e simili orpelli – il manifesto lascia fuori l’universalismo islamico – il messaggio dell’islam è destinato a tutti, e ciò implica la dawa – e il “comandare il bene e proibire il male”, e ciò implica la politica. E ambedue sono obblighi per i musulmani.

Cosa troviamo allora nella parte programmatica – Francesca Bocca rifiuta il termine “prescrittivo” – di questo “manifesto di quello che l’islam italiano potrà essere”? L’autrice immagina una comunità sottratta al solito insieme di “quotidianità, di associazionismo, di lavoro” e alle “mille fatiche di un’integrazione” i cui esami non finiscono mai. Sogna un islam “profondamente appartenente alla cultura italiana”, in grado di “restituire e reciprocare”. Insomma un islam le cui élites intellettuali dialoghino finalmente a tu per tu con le élites “italiane”.

All’opposto dei fratelli delle banlieues francesi – i quali, esclusi dalla cultura mainstream malgrado lo jus soli, si rifugiano nell’antagonismo battagliero dei rappers – i musulmani italiani, liberi dai rancori post-coloniali dei loro fratelli, possono percorrere “una via non di rifiuto e di sfida ma di geniale creatività”. Da esprimersi nel romanzo, la poesia, le arti visive, ravvivando queste forme oggi stagnati in Italia. Inoltre, pur tralasciando la politica, questo futuro “islam italiano” presenta tratti che a quel campo appartengono, dal prendersi cura del vicinato (chiamasi “politica di prossimità”) all’ “appartenenza produttiva allo Stato” di cui l’autrice ha “un’idea ottimista” e in cui i musulmani “possono trovare un posto”.

Stupisce di questo “Manifesto” la ricorrente contrapposizione tra “musulmani” e “italiani” come qualcosa da superare, come se i musulmani non fossero già da tempo – e alcuni da sempre – italiani. Stupisce anche la mitizzazione di una “italianità” di altri tempi – quelli della costruzione dell’Unità d’Italia e del libro “Cuore” (lettura peraltro raccomandabile ai “nuovi italiani”) – fatta di Dante e cristianesimo, tricolore e Eneide, come se nel frattempo non ci fossero stati Maastricht e Schengen e Interail e l’Erasmus, come se non si fosse passati da una cultura che considerava “matrimonio misto” quello tra un calabrese e un’emiliana ad una cultura in cui i siciliani si sono considerati improvvisamente simili agli svedesi – tutti europei mentre i cugini marocchini diventavano “extracomunitari” – come se la nuova “Europa delle città” non avesse rivalorizzato proprio le identità locali cosmopolite.

Certo oggi tira un’altra aria rispetto alle grandi speranze dell’integrazione europea ma i musulmani in Italia sono arrivati per restarci, crescono e si moltiplicano, sono ormai in maggioranza “musulmani italiani”, e in numero consistente “italiani da sempre” e in quanto alle seconde e terze generazioni sarebbe ora che dentro e fuori la umma si abbandonasse questa espressione (mica la usiamo per i figli dei militari polacchi arrivati in Italia con la seconda guerra mondiale o i figli dei professori delle università americane arrivati in Italia subito dopo). E’ invece urgente che la comunità si impegni a conoscere meglio sé stessa e migliorare sé stessa per svolgere al meglio la funzione che “i musulmani d’Europa devono ambire ad avere”  – secondo la bella conclusione del libro – quella di essere “i riparatori spirituali del cuore” dei paesi d’Europa nei quali Dio li ha destinati a vivere e che l’antico linguaggio delle libere città chiama “comunità di destino”.