La censura sui social media era un fatto noto anche prima del 7 ottobre: giornalisti, content creators e comuni utenti, da anni sono costretti a censurare parole chiave, ricevono segnalazioni e rimozione di contenuti quando si tratta di Gaza e Palestina. Un fatto che è andato indiscutibilmente a intensificarsi durante il genocidio. Chi possiede la spunta blu, quindi la possibilità di ricevere assistenza da Meta, non ha vie preferenziali. Gli operatori rispondono alle contestazioni sottolineando la freddezza dell’algoritmo, che non farebbe distinzione tra contenuti politici, e immagini cruente che non vogliono certo incitare all’odio, bensì documentare una catastrofe umanitaria senza precedenti nella storia moderna.
Secondo un’inchiesta del Guardian, invece, attraverso documenti trapelati da un ex dipendente Meta, che ha chiesto l’anonimato per timore di ritorsioni, si evidenzia che l’azienda applicherebbe processi specifici sui contenuti, motivati da forti pregiudizi e da un approccio ingiusto. In una lettera firmata da duecento dipendenti, si denuncia l’impossibilità di esprimere preoccupazione sui metodi di moderazione all’interno dell’azienda. Una coalizione di organizzazioni, a giugno, aveva accusato Meta di promuovere una narrazione distorta e dannosa.
Ciò nonostante, giornalisti e attivisti pro-Palestina, negli ultimi mesi hanno subito attacchi online sempre più duri e mirati. Le accuse di complottismo, o di una qualsivoglia forma di vittimismo, erano infondate. Chiunque si occupi del genocidio in atto a Gaza, ha notato una precisione chirurgica che punta a silenziare ogni voce, ogni testimonianza e ogni attività a favore della popolazione civile palestinese.
I sospetti non erano infondati. Il sito www.hasbaramap.com, in collaborazione con il Ministero della Diaspora e degli Esteri israeliano, con l’IDF, Visit2Israel e il sistema informativo nazionale, organizza esperti e volontari per una campagna volta a promuovere le voci israeliane e bloccare influencer, attivisti e giornalisti palestinesi e pro-Palestina.
Dal menù a tendina del sito si accede facilmente a un elenco dei più famosi a livello internazionale, nel quale sono incluse testate giornalistiche e celebrità, ma appare chiaro un esplicito coordinamento nei singoli paesi tramite comunità e lobby ebraiche sioniste che sistematicamente promuovono contenuti anti Islamici, e prendono di mira i sostenitori del popolo palestinese accusandoli di essere antisemiti.
Il sito permette di accedere a una cartella Drive nella quale i collaboratori archiviano contenuti, immagini, opinioni, e materiale informativo per organizzare un sistema di “intelligence civile” in venticinque lingue diverse.
Inoltre, vengono promossi contenuti creati tramite intelligenza artificiale, e bot (ovvero un programma che nei social media si spaccia per una persona, un robot difficilmente riconoscibile dagli utenti) per distribuire messaggi di propaganda o virus (spamouflage), e per segnalare in massa ogni post a favore di Gaza.
Il sito contiene un database sull’odio ebraico, una pagina che raccoglie nomi presumibilmente antisemiti sulla base di post e video, un data base di link pro-Israele, video e documenti per una advocacy efficace, e raccolta di post in favore di Gaza che si pone l’obiettivo di segnalarli e farli rimuovere.
Una voce del menù, tra le varie statistiche contro Hamas e l’ala armata Al Qassam, si intitola addirittura “Hamas è l’Isis”, un altro database “Real faces” si pone l’obiettivo di enfatizzare la denigrazione del gruppo politico palestinese, e delle popolazioni arabe musulmane.
Un’altra voce del menù promuove attività coordinate per “sostenere i media israeliani seguendoli, commentando e cliccando mi piace, per aiutare l’algoritmo a funzionare e rendere i post virali”. Si insegna, inoltre, ai volontari quali strumenti utilizzare per aumentare l’esposizione dei post filoisraeliani e denunciare quelli filopalestinesi su tutte le piattaforme.
Nell’area “comando di sensibilizzazione” viene gestita una rete di migliaia di persone, in tutto il mondo, per fornire contenuti atti a promuovere Israele. È anche disponibile un reporting costantemente aggiornato sui danni al lavoro degli influencers, attivisti e giornalisti.
È importante evidenziare anche la voce del menù che mira al licenziamento dei professionisti, tramite un controllo incrociato dai post di Facebook e Instagram ai profili Linkedin, tramite l’accusa di sostenere un’organizzazione terroristica e promuovere odio antisemita.
I volontari nel mondo, che desiderano partecipare a questa complessa operazione, inclusi esperti e associazioni, devono essere identificati tramite un sistema preciso di verifica.
La recente inchiesta de La Luce, poi ripresa da Al Jazeera, che denunciava gli attacchi contro gli attivisti in Italia, incluse minacce di morte e licenziamenti, aveva già sottolineato l’intensificarsi di una guerra online combattuta ad armi impari.
Lo spaventoso coordinamento a livello mondiale rende l’algoritmo di Meta un problema minore.
È lecito chiedersi, dunque, se il movimento globale in supporto a Gaza che quotidianamente denuncia massacri, e le violazioni di ogni legge e diritto internazionale, abbia speranza di sopravvivere a questi attacchi perfettamente organizzati nei tempi e nelle modalità, che hanno il solo scopo di mettere in atto il ben noto revisionismo storico sionista, in questo caso immediato.