Ferito a morte, dopo aver dato ordine ai suoi uomini di lasciarlo lì per mettersi in salvo, in mimetica, seduto su una poltrona in una delle tante case di Gaza sventrate dalla furia delle bombe israeliane, Yahya Sinwar, come ultimo atto, scaglia la più primordiale delle armi contro un modernissimo drone.
La sua figura si staglia con una forza quasi mitologica, incarnando l’immagine di un Davide contemporaneo contro il Golia tecnologico.
La sua morte non è solo un evento; è un simbolo potente, un capitolo doloroso nella lunga narrazione di un popolo in lotta per la propria liberazione.
I filmati ci restituiscono l’immagine di un Sinwar combattente tra i suoi uomini, armato di pistola in una mano e tasbih nell’altra, le fotografie del suo cadavere ricordano quelle di un altro rivoluzionario iconico, Che Guevara, entrambi uccisi dall’imperialismo entrambi diventati icone potenti di resistenza contro un oppressore soverchiante.
La morte di Abu Ibrahim distrugge in pochi attimi la propaganda sionista che voleva i leader della resistenza lontani dal campo di battaglia, protetti da centinaia di combattenti o addirittura fuggiti mentre il popolo soffre le conseguenze delle loro decisioni politiche. Già lo sterminio dell’intera famiglia di Ismail Haniyeh e poi il suo omicidio aveva mostrato quanto fosse falso il racconto della leadership della resistenza al sicuro nei lussuosi hotel di Doha. Questa prossimità al pericolo e alla sofferenza dei suoi compatrioti ha rafforzato la sua figura di leader non solo nella narrazione palestinese ma anche nell’immaginario collettivo internazionale.
La sua morte, descritta come un atto di sacrificio supremo, si inserisce nella tradizione dei martiri della resistenza palestinese. Sinwar, come ha espresso in vita, non ha mai temuto il martirio; anzi, lo ha cercato come culmine della sua lotta. In questo contesto, la sua uccisione non segna una sconfitta ma un’ulteriore testimonianza dell’immutabile volontà di resistenza del popolo palestinese.
La morte di Sinwar si aggiunge alla serie di perdite significative per la causa palestinese, come quelle di Ahmed Yassin e Abdel Aziz al-Rantisi, anch’essi uccisi ma mai dimenticati, trasformati in martiri e simboli di resistenza continua.
La resistenza palestinese, come sottolinea la vita e la morte di Sinwar, non è ancorata ai desideri personali dei suoi leader ma è radicata profondamente nell’oppressione subita. Questa lotta non è solamente politica o territoriale; è un conflitto profondamente umano e esistenziale, dove ogni sacrificio personale si dissolve nel più ampio obiettivo di liberazione.
Non ci troviamo quindi di fronte alla fine dell’epopea palestinese, ci troviamo di fronte alla scrittura di un nuovo capitolo della resistenza contro il più duro dei progetti coloniali e suprematisti. In questo dramma, la figura di Sinwar si eleva da una leadership politica a un simbolo epico di resistenza e sacrificio rafforzando l’epopea di un popolo in lotta per la libertà e divenendo un emblema universale di fede, coerenza e coraggio.