“Il mio nome è nessuno”: a proposito delle migliaia di ostaggi palestinesi prima del 7 ottobre

Dopo l’azione del 7 ottobre 2023, quando il movimento di resistenza armata Hamas ha colpito Israele, l’attenzione internazionale si è subito focalizzata sulla sorte degli ostaggi israeliani presi da Gaza. La preoccupazione globale si è orientata sulle vite degli israeliani ignorando le dinamiche di un conflitto unilaterale che divora la vita di innocenti da quasi un secolo. Tuttavia, esiste un’altra verità nascosta, una storia ignorata da troppo tempo: migliaia di palestinesi, inclusi donne e bambini, sono prigionieri di di Israele, tenuti in detenzione senza processo, senza accuse formali, e senza speranza.

Le voci dei prigionieri palestinesi riecheggiano nelle celle delle carceri israeliane, ma raramente raggiungono i mezzi di comunicazione o l’opinione pubblica internazionale. È stato solo nel luglio 2024, in un rapporto delle Nazioni Unite, che è emersa con chiarezza una parte della portata di questo fenomeno: migliaia di palestinesi sono stati “presi in custodia” dalle forze israeliane dal novembre 2023, soprattutto a Gaza. Questi numeri comprendono donne, adolescenti e bambini, molti dei quali non hanno mai visto una corte di giustizia, né avuto accesso a un avvocato. Questi numeri si uniscono agli ostaggi palestinesi risalenti a prima del 2023.

Le dichiarazioni di Hamas, rilasciate subito dopo l’attacco, sembravano quasi incomprensibili: parlavano di una missione volta a “recuperare i loro ostaggi.” Una frase che ha sollevato interrogativi e dubbi, soprattutto in Occidente. Ma, scavando un po’ più a fondo, si comprende che Hamas faceva riferimento proprio a quei palestinesi trattenuti da Israele, spesso per anni, senza prove, senza un’accusa, e senza una data di rilascio. 

Un sistema di ‘detenzione amministrativa’: ostaggi senza prove, senza processi

La legge israeliana prevede uno strumento unico: la detenzione amministrativa, che consente di trattenere delle persone, i palestinesi, senza un’accusa formale e senza portarla davanti a un giudice. Tale detenzione può essere prorogata all’infinito, ogni sei mesi, a discrezione delle autorità. Le prove, definite spesso come “confidenziali,” non vengono rivelate né all’imputato né al suo avvocato, rendendo la difesa praticamente impossibile. Donne e bambini non sono esclusi da questo sistema; al contrario, rappresentano una percentuale significativa tra i prigionieri amministrativi.

Un’indagine svolta da Addameer, una delle principali organizzazioni palestinesi per i diritti dei prigionieri, riporta che nel 2022 circa 4.000 palestinesi erano rinchiusi nelle prigioni israeliane, dei quali quasi 1.000 erano sotto detenzione amministrativa, inclusi molti bambini e donne. B’Tselem, un’organizzazione israeliana per i diritti umani, ha descritto questa pratica come una “punizione collettiva,” un sistema progettato non per la giustizia, ma per il controllo, per la repressione politica e psicologica di un intero popolo. Secondo i rapporti di queste organizzazioni, l’obiettivo non è quello di condannare i colpevoli di crimini, ma di intimidire e reprimere il dissenso palestinese.

La vita in prigione: abusi, torture e la devastazione psicologica

Le testimonianze dei detenuti che hanno sperimentato questo sistema rivelano un quadro agghiacciante. B’Tselem e Human Rights Watch riportano ad esempio che i bambini palestinesi vengono spesso prelevati dalle proprie case nel cuore della notte, con la forza e sotto minaccia. Questi minori vengono separati dalle loro famiglie, sottoposti a interrogatori estenuanti, e, talvolta, posti in isolamento. L’isolamento psicologico e il clima di terrore sono armi potenti usate per minare la volontà dei giovani prigionieri. Alcuni minori hanno raccontato di aver subito pressioni affinché confessassero crimini che non avevano commesso, o per dare informazioni su familiari e amici.

Anche le donne palestinesi non sono risparmiate: spesso incarcerate senza ragione, prive di assistenza medica adeguata e sottoposte a maltrattamenti. La prigione diventa per loro una trappola mortale, dove il trauma non è solo fisico, ma psicologico e culturale. La detenzione amministrativa ha anche conseguenze devastanti sulle famiglie: madri separate dai loro figli, padri che non vedono crescere i propri bambini. La prigionia in assenza di prove, processi o anche solo di una spiegazione chiara, crea un trauma collettivo, un ricordo che si trasmette di generazione in generazione, amplificando il dolore e il senso di ingiustizia.

Una questione di numeri e di umanità/disumanità

Il racconto ufficiale del governo israeliano si concentra sempre sulla “sicurezza nazionale,” ma questo non tiene volutamente conto della disumanizzazione inflitta a migliaia di persone. Dal 1967 a oggi, secondo B’Tselem, sono stati detenuti circa quasi un milione di palestinesi. Numeri impressionanti, che raccontano un’altra storia: una popolazione costretta a vivere sotto il controllo di un sistema che non le riconosce diritti né dignità.

Israele ha mantenuto e ampliato queste pratiche nonostante le condanne internazionali. Nel 2023, mentre il mondo occidentale puntava il dito contro Gaza, quasi nessuno parlava delle vite spezzate di questi prigionieri palestinesi, uomini e donne trattenuti per anni senza sapere se mai usciranno. Ogni mese, i numeri oscillano, ma il fenomeno non diminuisce: per ogni palestinese rilasciato, altri vengono arrestati, in una spirale che sembra non avere fine ed il fenomeno è peggiorato con gli arresti arbitrari in Cisgiordania oltre che a Gaza avvenuti da ottobre 2023.

Il doppio standard sempre e comunque

Oggi, dopo l’attacco di Hamas seguito da un genocidio trasmesso in diretta dalle stesse vittime, l’attenzione del mondo si rivolge ancora solo agli ostaggi israeliani parlando di possibile cessate il fuoco se questi ostaggi dovessero essere liberati. Il tema è sensibile e merita una risposta immediata, così come è giusto che i non combattenti, da ambo le parti, non diventino mai strumenti di guerra. Tuttavia, non possiamo ignorare che mentre Gaza oggi è rasa al suolo con 42.000 morti dirette e 200.000 morti indirette (fonte: The Lancet) un popolo intero è stato trattenuto in una prigione invisibile, non solo fisica, ma mentale, morale e culturale. Migliaia di palestinesi, uomini, donne, e bambini, sono gli ostaggi dimenticati di un conflitto che l’Occidente ha scelto di non vedere, per colpa di una leadership accecata dalla lobby israeliana che con organizzazione come AIPAC e la sua succursale europea ELNET, lavora per allineare la posizione di politici in chiave sionista.

Tuttavia, il vero dramma non sta solo nel conteggio degli ostaggi, ma nel doppio standard con cui questa parola viene utilizzata. I prigionieri palestinesi, in un sistema coloniale, razzista e di apartheid, sono gli ostaggi della politica di repressione di Israele, ostaggi di un conflitto che sembra irrisolvibile, ostaggi di un’occupazione che li considera colpevoli senza prove, colpevoli di esistere in un territorio conteso.

È una storia di ingiustizia e di resistenza, di vite vissute all’ombra di un sistema che non prevede il loro diritto di parola, né di difesa. Un crimine che si consuma da decenni, e che il mondo continua a subite vittima dell’immunità di cui gode Israele quale avamposto coloniale americano in Medio Oriente.

Crediti immagine copertina: Raneen Sawafta/Reuters