A più di un anno dall’inizio del conflitto a Gaza, una protesta silenziosa, ma decisamente radicale, sta scuotendo la Giordania. Decine di persone hanno iniziato uno sciopero della fame a oltranza, dichiarando che sono pronte a morire pur di fermare l’assedio israeliano su Gaza. Questi uomini e donne, senza legami politici né ideologici, hanno preso una decisione estrema per attirare l’attenzione su una crisi che rischia di passare sotto silenzio.
L’obiettivo è chiaro: costringere il governo giordano a fare pressione su Israele affinché permetta l’ingresso degli aiuti umanitari nella Striscia di Gaza. Le richieste sono precise e drammatiche: almeno 500 camion di cibo, medicine e beni di prima necessità devono entrare a Gaza, in particolare nelle zone devastate di Jabalia, Beit Lahia e Beit Hanoun. Ma il tempo stringe, e la morte di questi scioperanti potrebbe essere l’unica cosa che riuscirà a muovere qualcosa.
Già il 1° novembre, alcuni attivisti avevano iniziato a scioperare davanti all’ambasciata statunitense ad Amman, ma la protesta è cresciuta velocemente. I partecipanti, che scioperano principalmente nelle proprie case consumando solo acqua e sale, sono ormai centinaia. Ma non è un semplice atto di solidarietà: la protesta si fa sempre più una questione di vita o di morte. Molti di loro sono stati ricoverati per ipoglicemia, eppure continuano, consapevoli che questa lotta potrebbe costargli la vita.
Il governo giordano sotto accusa: “Non ci ascoltano”
Nonostante il sacrificio fisico e la crescente attenzione sui social media, i manifestanti denunciano il disinteresse del governo giordano. Più volte hanno tentato di portare le loro richieste direttamente alle autorità, ma le risposte sono state deludenti e irrisorie: uno di loro è stato rimandato con una promessa di incontro solo “durante l’orario di lavoro”. Questo disinteresse ha spinto gli attivisti a prendere posizioni sempre più estreme, come il sit-in davanti al Consiglio Nazionale per i Diritti Umani, dove sono stati minacciati di arresto.
La protesta, che si è sviluppata sotto il nome di “Lancia il tuo bastone”, è un tributo al leader di Hamas Yahya Sinwar, divenuto simbolo della resistenza contro l’occupazione israeliana soprattutto dopo la diffusione del video della sua morte dalle truppe israeliane. In una delle sue ultime azioni, Sinwar lancia infatti un bastone contro un drone israeliano, simbolizzando la resistenza anche contro il nemico più potente. Ora, quel gesto da il nome a questa ondata di proteste in Giordania da parte di chi si oppone all’assedio e alle violenze su Gaza.
Giordania: il paese di chi non può più tacere
La Giordania è un paese segnato dalla presenza di milioni di rifugiati palestinesi, discendenti di coloro che furono costretti a fuggire da quella che oggi è Israele. Questo retaggio storico rende il sentimento pro-palestinese particolarmente forte. Ma il governo giordano si trova tra due fuochi: da un lato, la pressione interna della sua popolazione, sempre più stanca della passività politica; dall’altro, l’intenzione del re e del suo entourage di mantenere relazioni con Israele, nonostante la crescente sfiducia popolare.
Non è un caso che nelle ultime settimane siano emersi attacchi contro obiettivi israeliani da parte di giordani. A settembre, un ex soldato giordano ha ucciso tre israeliani al confine con la Cisgiordania, mentre a ottobre altri due giordani hanno ferito soldati israeliani in un attacco nei pressi del Mar Morto.
Questi atti di violenza e la protesta in corso sono il segno di una frattura sempre più profonda tra il governo e la popolazione, tra una leadership vista come “asservita” e “traditrice” ed incapace di rappresentare il popolo e la pressione di un popolo che non può ignorare la tragedia di Gaza che si consuma da un anno a pochi chilometri di distanza.
Crediti immagine copertina: Reuters