Golan : la nuova frontiera dell’espansionismo coloniale israeliano

Alla fine del XIX secolo, il sogno sionista di insediarsi nel Golan si infranse presto. Dopo il primo congresso sionista del 1897, i tentativi di stabilire comunità ebraiche nell’altopiano si rivelarono fallimentari. Nel 1919, al termine della Prima guerra mondiale, il movimento sionista avanzò nuovamente le proprie richieste alla conferenza di pace di Versailles, sottolineando l’importanza strategica e idrica del Golan per il futuro Stato ebraico. Ma la storia aveva altri piani. L’altopiano passò sotto il controllo francese e, nel 1946, con l’indipendenza siriana, divenne territorio di Damasco. L’armistizio del 1949, dopo l’inizio dell’occupazione israeliana in Palestina, tracciò confini che lasciarono il Golan al di fuori dello Stato ebraico, pur mantenendolo al centro di tensioni sempre più aspre tra Israele e Siria.

Alla vigilia della guerra del 1967, il Golan era abitato da circa 150.000 persone, distribuite in 163 villaggi. Era un mosaico etnico composto principalmente da musulmani sunniti, con minoranze druse, alawite e curde. Tuttavia, l’occupazione israeliana del 1967 trasformò radicalmente il volto dell’altopiano. Un censimento condotto da Israele rilevò che erano rimasti solo 6.396 residenti, per lo più drusi. Le storie dietro quei numeri raccontano di fughe, sfollamenti forzati e promesse di ritorno non mantenute. Alcuni abitanti furono costretti a firmare documenti di “partenza volontaria”; altri, tornati nei loro villaggi con il permesso delle autorità israeliane, furono accolti da nuove violenze che li spinsero definitivamente a rifugiarsi altrove. Dei 163 villaggi originari, oggi ne restano soltanto quattro, tutti a maggioranza drusa. Intanto, Israele ha trasformato gran parte del territorio per scopi turistici e strategici, cancellando le tracce della sua storia araba.

L’occupazione del Golan fu propagandata da Israele come una necessità di sicurezza, giustificata dall’accesso alle risorse idriche e dalla protezione della Galilea. Nonostante le risoluzioni ONU 242 e 338 chiedessero il ritiro dai territori occupati, nel 1981 il governo di Menachem Begin annesse formalmente l’altopiano, estendendovi la legislazione civile israeliana. La restituzione del Sinai all’Egitto nel 1979, frutto di un accordo di pace, venne usata come monito: il Golan, si sostenne, rappresentava una barriera difensiva troppo cruciale per poter essere ceduta.

Oggi, con il riconoscimento della sovranità israeliana sul Golan da parte degli Stati Uniti, il governo israeliano punta a consolidare la propria presenza nell’altopiano. Israele ha annunciato piani ambiziosi per raddoppiare gli insediamenti ebraici entro cinque anni, rafforzando ulteriormente il controllo su questo territorio strategico.

Questa strategia trae forza dai falliti negoziati israelo-siriani degli anni ’90 e dal caos della guerra civile siriana, che ha portato l’Iran sempre più vicino ai confini israeliani. Israele usa queste circostanze per presentare l’occupazione come una questione di sicurezza nazionale, privilegiando la legittimità percepita rispetto alla legalità internazionale, spesso considerata ostile. Ma questa visione solleva interrogativi sul futuro del diritto internazionale, creando un precedente che potrebbe influenzare altre dispute territoriali, dal Kashmir al Mar Cinese Meridionale.

Per i palestinesi, questo scenario prefigura un’altra possibilità inquietante: l’annessione di porzioni della Cisgiordania occupata potrebbe essere solo questione di tempo. Nel 2020, era già stata quasi formalizzata con il sostegno dell’allora presidente Donald Trump. Il Golan, dunque, non è solo una storia di confini e terre, ma una finestra su una politica espansionistica di Israele che continua a ridisegnare le mappe e a scuotere l’equilibrio internazionale.

Una decina di giorni fa circa, Israele ha approvato un piano che prevede l’aumento significativo del numero di coloni nelle alture del Golan. La decisione arriva a pochi giorni dal sequestro di un altro pezzo di territorio siriano, avvenuto dopo il rovesciamento del leader Bashar al-Assad. Il piano prevede di raddoppiare la popolazione israeliana nelle alture del Golan, puntando a un “sviluppo demografico” della regione, come confermato dallo stesso ufficio del primo ministro.

Il nuovo piano di insediamento riguarda solo la parte del Golan già sotto il controllo israeliano dal 1967, ma non include la zona recentemente sequestrata da Israele in seguito agli sviluppi in Siria, che include anche il monte Hermon, strategicamente importante e che sovrasta la capitale siriana, Damasco. 

Netanyahu ha difeso la creazione della zona cuscinetto, dichiarando che l’incremento dei coloni è fondamentale per “rafforzare lo Stato di Israele” e che la sua attuazione è particolarmente cruciale in questo momento di incertezze geopolitiche. “Continueremo a mantenere il Golan, a farlo fiorire e a stabilirci lì”, ha aggiunto. Il piano prevede una somma di 40 milioni di shekel (circa 11 milioni di dollari) per incentivare l’arrivo di nuovi coloni e rafforzare la presenza israeliana nella regione. Attualmente, circa 31.000 coloni israeliani vivono in decine di insediamenti illegali sulle alture del Golan, dove coesistono con gruppi minoritari, tra cui i drusi, che si identificano principalmente come siriani, non essendo infatti considerati cittadini “israeliani”. 

La tempistica di questa mossa non è casuale. Secondo Nour Odeh, corrispondente di Al Jazeera da Amman, Israele ha approfittato di quella che considera una “finestra di opportunità“. Nel 2019, sotto l’amministrazione di Donald Trump, gli Stati Uniti sono diventati il primo paese al mondo a riconoscere ufficialmente la sovranità israeliana sul Golan. Con Trump che si appresta a tornare alla Casa Bianca a gennaio 2025, il governo israeliano sembra voler consolidare ancora di più la sua presenza sul territorio, un passo che, secondo gli esperti, si inserisce in una strategia di accaparramento delle terre e di insediamento permanente simile a quanto accade nella Cisgiordania occupata.

Nel frattempo, il governo israeliano ha discusso della situazione siriana in una telefonata tra Netanyahu e Trump. Nonostante Israele abbia lanciato numerosi attacchi contro siti siriani da quando il gruppo di opposizione, Hayat Tahrir al-Sham, ha rovesciato il regime al-Assad, Netanyahu ha minimizzato le tensioni, dichiarando che Israele non ha interesse ad entrare in conflitto con la Siria. Gli attacchi, ha spiegato, sono finalizzati a impedire che “elementi terroristici” prendano il controllo vicino ai confini israeliani.

La mossa di Israele di occupare i territori, tuttavia, ha suscitato reazioni forti a livello internazionale. L’Arabia Saudita è stata tra i primi paesi a condannare il piano di insediamento, accusando Israele di cercare di sabotare i delicati processi di transizione in Siria. Qatar, Giordania, Turchia e Germania, si sono levate contro questa mossa considerata una palese violazione del diritto internazionale e un tentativo di consolidare un’occupazione illegittima. L’espansione degli insediamenti non è l’unica azione che ha inasprito le reazioni. Nelle ultime settimane, Israele ha incredibilmente intensificato i bombardamenti in territorio siriano, colpendo obiettivi militari e infrastrutture. 

Nonostante queste provocazioni, le nuove autorità siriane hanno già affermato di non voler cercare lo scontro con Israele. Tuttavia, la comunità internazionale è preoccupata che le azioni di Tel Aviv possano innescare una nuova spirale di violenza contro la Siria. L’Unione Europea, in particolare, sta cercando di sostenere la transizione della Siria e di isolare Russia e Iran, considerati i principali sostenitori di al-Assad. L’inviato europeo ha avviato colloqui di alto livello con i nuovi leader siriani e l’UE ha promesso aiuti finanziari per la ricostruzione del paese.