Come Trump e Netanyahu hanno costretto Mohammed bin Salman a porre dei limiti sulla Palestina

Traduzione di editoriale di David Hearst pubblicato su Middle East Eye a cura di Aicha Tiziana Bravi

Le dichiarazioni di Washington e Tel Aviv per l’approvazione dei piani di pulizia etnica in Palestina hanno costretto la politica estera saudita a tornare ai giorni del nazionalismo arabo di re Faisal.

La relazione segreta rivendicata dal primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu con l’Arabia Saudita, che si era sviluppata nel corso degli anni, si è disintegrata in pochi giorni.

Netanyahu ne ha parlato esplicitamente in un’intervista con Channel 14 durante la sua visita a Washington la scorsa settimana.

“Abbiamo condotto relazioni segrete per quasi tre anni. Da parte nostra, oltre a me, soltanto tre persone ne erano a conoscenza. Anche dalla loro parte c’era un numero molto esiguo di persone coinvolte, così come anche da parte americana”, si è vantato Netanyahu.

Se è vero, e non un’altra delle invenzioni di Netanyahu, questa relazione può essere rivelata soltanto con il consenso dell’altra parte o a trattative concluse. La terza possibilità è che questa affermazione sia l’atto di un bullo, come tante altre ascoltate la scorsa settimana.

Ma la relazione tra il regno e Israele è stata incentrata sia su ambizioni personali che su quelle governative e nazionali.

Essendo un principe sconosciuto, costretto ad affrontare la dura opposizione di potenti membri della famiglia reale, Mohammed bin Salman (MBS) si è ben presto reso conto che la sua strada per ottenere il potere nel paese avrebbe dovuto passare per Tel Aviv e Washington.

Una volta insediato come principe ereditario, Bin Salman ha continuato a corteggiare Israele, facendo una visita segreta nel 2017. In questa occasione, si ingraziò l’opinione pubblica ebraica americana esprimendo pubblicamente disprezzo per la causa palestinese e finendo su tutte le prime pagine dei giornali.

Continuò anche l’anno successivo, quando castigò il presidente palestinese Mahmoud Abbas affermando che i palestinesi avrebbero dovuto negoziare con Israele o “tacere”.

Prima dell’attacco compiuto da Hamas contro Israele, MBS si stava avvicinando sempre di più alla firma degli Accordi di Abramo.

Ma anche dopo gli attacchi di Hamas, l’Arabia Saudita ha continuato a fare affari con Israele come faceva in precedenza.

Nessun margine di manovra
Per 15 lunghi mesi, le proteste pro-Palestina non sono state tollerate mentre le feste sono continuate nonostante Gaza piangesse. Si è arrivati persino a proibire di issare una bandiera palestinese o che i pellegrini presenti alla Mecca pregassero per Gaza.

Né il bilancio sempre crescente delle vittime a Gaza, né l’invasione del Libano, né l’operazione militare nella Cisgiordania occupata hanno cambiato la linea saudita.

Il principe ereditario era pronto anche a tollerare un certo livello di umiliazione da parte del presidente degli Stati Uniti, Donald Trump. Alla domanda su quale paese avrebbe visitato per primo, Trump ha risposto che l’Arabia Saudita avrebbe dovuto pagare 500 miliardi di dollari in contratti a favore degli Stati Uniti per garantirsi l’onore della sua presenza.

Dopo una calorosa telefonata da parte di MBS, il regno ha promesso 600 miliardi di dollari. Trump ha quindi aumentato la richiesta, dicendo che la cifra dovrebbe avvicinarsi a 1 trilione di dollari.

“Penso che lo faranno perché siamo stati molto buoni con loro”, ha dichiarato Trump al World Economic Forum di Davos, in Svizzera.

Quando Trump ha rivelato il piano per impadronirsi di Gaza dopo il trasferimento di massa dei palestinesi, ha aggiunto che il conto per l’operazione di pulizia sarebbe stato addebitato agli stati del Golfo, intendendo con ciò l’Arabia Saudita. Ciò ha irritato particolarmente Riad.

Inoltre, Trump si è vantato del fatto che l’Arabia Saudita avrebbe normalizzato i rapporti con Israele anche senza uno stato palestinese. “Quindi, l’Arabia Saudita sarà molto utile. E lo è stata molto. Vogliono la pace in Medio Oriente. È molto semplice”, disse Trump.

Sono bastati solo 45 minuti a Riad per rispondere a quella che è diventata famosa come la “dichiarazione dell’alba”.

Non ha lasciato nessun margine di manovra.

“Sua Altezza Reale ha sottolineato che l’Arabia Saudita continuerà i suoi incessanti sforzi per stabilire uno stato palestinese indipendente con Gerusalemme Est come capitale, e non stabilirà relazioni con Israele prima che ciò avvenga”.

“Il Regno dell’Arabia Saudita ribadisce inoltre il suo inequivocabile rifiuto di qualsiasi violazione dei legittimi diritti del popolo palestinese, sia attraverso le politiche di insediamento israeliane, l’annessione di terre o i tentativi di sfollare il popolo palestinese dalla propria terra… Il Regno dell’Arabia Saudita sottolinea che questa posizione irremovibile non è negoziabile e non è soggetta a compromessi”.

Da allora, la guerra verbale si è intensificata.

Nella sua intervista con Channel 14, Netanyahu ha alzato il tiro. Ha detto che se i sauditi sono così desiderosi di creare uno stato palestinese, possono farlo sul loro territorio. “I sauditi possono creare uno stato palestinese in Arabia Saudita; hanno vasti terreni da quelle parti”.

Ciò ha provocato ulteriori proteste di condanne nel mondo arabo, tra cui Egitto, Giordania, Emirati Arabi Uniti (EAU), nonché Iraq, Qatar e Kuwait.

Nella seconda dichiarazione della settimana, Riad ha affermato di aver respinto con decisione le affermazioni che “mirano a distogliere l’attenzione dai continui crimini commessi dall’occupazione israeliana contro i fratelli palestinesi a Gaza, inclusa la pulizia etnica a cui sono sottoposti”.

La dichiarazione ha lasciato di nuovo poco spazio all’immaginazione: “Questa mentalità estremista e occupante non capisce cosa significhi la terra palestinese per il popolo fraterno della Palestina e il suo legame emotivo, storico e legittimo con questa terra”, ha affermato.

I palestinesi hanno diritto alla loro terra e “non sono intrusi o immigrati che possono essere espulsi ogni volta che la brutale occupazione israeliana lo desidera”.

Altri tempi
In pochi giorni, Trump e Netanyahu hanno rovinato tutto il lavoro fatto in questi anni. Sono stati loro a convincere gli Emirati Arabi Uniti, il Bahrein, il Sudan e il Marocco a firmare gli Accordi di Abramo.

Nell’intervista con Fox News, Netanyahu non ha cercato di nascondere il vero scopo degli accordi, dicendo che sono stati fatti per tagliare fuori i palestinesi. In questo modo, Netanyahu ha mostrato totale disprezzo nei confronti della sensibilità saudita.

“Quando avremo completato il cambiamento in Medio Oriente, ridotto ulteriormente l’asse iraniano, quando ci saremo assicurati che l’Iran non possieda armi nucleari, quando avremo distrutto Hamas, sarà pronto il terreno per un accordo con i sauditi e con altri”.

“Comunque, ho fiducia anche nel mondo islamico. Perché si tratta di ottenere la pace con la forza. Quando siamo molto forti e restiamo uniti, le obiezioni che vengono sollevate, che ora sembrano insormontabili, sono destinate a cambiare”, ha aggiunto.

Fino a oggi, Netanyahu aveva promesso a MBS e a Mohammed Bin Zayed, presidente degli Emirati Arabi Uniti, che li avrebbe sempre trattati come alleati.

Ora, invece, sta dicendo che vuole imporre loro la pace con la forza, che questa non è una relazione tra pari e che il mondo arabo si avvicinerà strisciando quando Israele avrà conquistato tutto.

Pertanto, queste dichiarazioni hanno ora costretto la politica estera saudita a tornare indietro di cinque decenni, ai giorni del nazionalismo arabo di re Faisal.

E per la prima volta in 15 mesi, esiste la possibilità reale di una prima linea di stati arabi emergenti, formata dai paesi che sono sempre stati indifferenti a Israele.

Indossando, significativamente, una kefiah, l’ex capo dell’intelligence saudita, il principe Turki al-Faisal, ha messo in guardia da eventuali “azioni collettive”, non solo da parte del mondo arabo e musulmano, ma anche dell’Europa.

Domenica sera, l’Egitto ha annunciato che ospiterà un vertice arabo di emergenza il 27 febbraio per discutere di “nuovi e pericolosi sviluppi” dopo la proposta di Trump di reinsediare i palestinesi dalla Striscia di Gaza.

Un’impresa troppo ambiziosa
Ciò che ha dato impulso a questo cambiamento di rotta è stata l’approvazione ufficiale, da parte di Israele e degli Stati Uniti, del trasferimento di massa della popolazione palestinese.

Per decenni, quest’idea è rimasta inviolata sugli scaffali polverosi del dibattito politico, tra le ali estremiste del sionismo religioso. Ora, al contrario, fa parte della politica dominante in Israele e in America.

Lungi dal mettere in discussione solo i vicini più prossimi di Israele, Egitto e Giordania, un trasferimento forzato di due milioni di palestinesi colpirebbe qualsiasi stato arabo, e in particolare il regno saudita.

Mentre Trump ribadiva l’impegno per il trasferimento di massa, con Netanyahu che lo definiva “l’idea più originale e nuova degli ultimi anni”, la minaccia percepita nelle capitali arabe non ha fatto che crescere.

Anche perché il movimento religioso sionista rivendica territori che vanno ben oltre gli attuali confini con Libano, Siria, Giordania ed Egitto. Daniella Weiss, la leader del movimento dei coloni, non ha timori nell’esprimere la vastità territoriale della terra promessa da Dio agli ebrei.

“Questa è la promessa di Dio ai Patriarchi della Nazione Ebraica. Sono tremila chilometri. Sono quasi grandi quanto il deserto del Sahara. Sono Iraq e Siria, e parte dell’Arabia Saudita”.

Anche senza Itamar Ben Gvir al potere, l’ex ministro estremista per la sicurezza nazionale, Israele sta occupando territorio siriano più vasto della Striscia di Gaza, in aggiunta alle alture del Golan occupate. Rifiuta inoltre di lasciare il Libano. Non fa mistero del suo piano di dividere la Siria in regioni distaccate tra loro, e sta utilizzando una retorica sempre più ostile nei confronti della Turchia.

È solo questione di tempo prima che l’espansione territoriale di Israele destabilizzi l’intera regione con conseguenze disastrose per il regno saudita.

A parte questo, i fattori che hanno contribuito a mettere a tacere gli stati del Golfo riguardo al conflitto palestinese non esistono più con la stessa chiarezza e valenza del 2017.

Israele e la prima amministrazione Trump hanno persuaso gli stati arabi sugli Accordi di Abramo in funzione anti-iraniana.

Ma ora che l’asse di resistenza iraniano è stato indebolito dalla perdita della Siria e dai colpi subiti da Hezbollah nella guerra, i sauditi calcolano giustamente che non è nel loro interesse spingere ulteriormente l’Iran in un angolo.

Anche perché le prime installazioni petrolifere che sarebbero colpite da un attacco iraniano per rappresaglia sarebbero le loro. I rapporti tra Riad e il nuovo presidente iraniano sono cordiali e MBS vuole mantenerli tali.

MBS è anche in una posizione diversa. Ha il saldo controllo del suo regno e quelli più giovani di lui lo considerano un leader popolare e modernizzatore. La repressione che ha usato per scalare la vetta del potere è, per il momento, un problema che si è lasciato alle spalle.

Il fatto di liberarsi di Israele e prendere le distanze da Trump dà ora a lui e al regno l’opportunità di tornare ad essere il fulcro morale ed economico del mondo arabo e islamico.

Il regno non è più isolato dal mondo musulmano come lo era quando MBS è salito al potere. Gode di relazioni cordiali con la Turchia. C’è un affare da 6 miliardi di dollari in vista, con Riad che è in trattativa per acquistare navi da guerra, carri armati e missili da Ankara.

MBS ora sa anche quanto sia diventata popolare la causa palestinese in patria. Secondo quanto riferito dall’Atlantic sulla sua conversazione avvenuta con l’ex Segretario di Stato americano Antony Blinken, MBS ha detto che, anche se lui personalmente non si preoccupa della questione palestinese, per il 70% dei più giovani tra i cittadini sauditi si tratta di una questione molto sentita.

“La maggior parte di loro non ha mai saputo molto della questione palestinese. E quindi vengono introdotti alla questione per la prima volta attraverso questo conflitto. È un problema enorme. Mi interessa personalmente la questione palestinese? A me no, ma alla mia gente sì, quindi devo assicurarmi che questo sia rilevante”, avrebbe detto MBS.

Cosa otterrebbe MBS stringendo le mani insanguinate di Netanyahu in pubblico?

Oggi, per lui, ci sarebbe solo una lunga lista di aspetti negativi in una simile operazione pubblicitaria.

Troppo tardi
Martedì, il re Abdullah di Giordania è arrivato a Washington con un messaggio dal mondo arabo che Trump farebbe bene ad ascoltare. Non si tratta di una vuota minaccia. Non è sintomo di debolezza. È la verità.

Permettere a Israele di radere al suolo Gaza, di espellere oltre due milioni di persone, di costringere la Giordania e l’Egitto ad accettarli e i ricchi stati arabi a ricostruirlo, avrebbe enormi conseguenze, cambierebbe davvero il Medio Oriente in modo irriconoscibile. Netanyahu ha ragione su questo.

Ciò coinvolgerebbe gli Stati Uniti in un conflitto religioso che si esaurirebbe molto tempo dopo che i corpi di Trump o Netanyahu fossero messi sottoterra.

Quel che c’è di pragmatico in Trump dovrebbe svegliarsi.

L’unica lezione derivante dalle guerre inutili che l’America ha condotto in questo secolo, sia con presidenti repubblicani che democratici, è che tutte sono iniziate con delle certezze e finite nel caos, e sono sempre durate molto più a lungo di quanto l’America volesse.

Il compito di Trump è porre fine alla guerra mentre il compito, apertamente proclamato, di Netanyahu è quello di farla continuare e di espanderla per dominare l’intera regione.

Per questo motivo, per un’America isolazionista, nazionalista e che si rivolga a se stessa, è necessario abbandonare Netanyahu e i suoi sogni di un Israele più grande oggi.

Perché domani potrebbe essere troppo tardi.

Crediti immagine copertina: AFP