Il clima che si respirava nei giorni scorsi in seguito all’incarico a Draghi ricordava a chi può ricordare quello di venticinque anni fa quando Romano Prodi guidava l’ingresso dell’Italia nell’Euro.
Gli Italiani, da cittadini di uno staterello mediterraneo più vicino alle sponde africane che a quelle baltiche, incominciarono a sentirsi candidati al “grande balzo” in Europa. Si levarono allora ovunque – dal basso si badi bene – voci che predicavano la necessità di emendarsi, abbandonando i cattivi comportamenti propri dei popoli meridionali arretrati, per coltivare le virtù dei ricchi e progrediti popoli nordici.
Vi era una diffusa disposizione al sacrificio personale per meritare l’accesso al paradiso europeo: i dipendenti pubblici che trovarono per sei mesi, sotto la voce “tassa per l’Europa”, una trattenuta sulla busta-paga invece di odiare l’Europa la amarono ancora di più. Poi si sa come sono andate le cose.
Per quanto possiamo ritenerci fortunati di essere in Europa e di avere l’euro, quel processo di integrazione ha prodotto in Italia una serie di effetti collaterali – dalla pressione sulle frontiere all’aumento dei prezzi – che hanno alimentato crescenti umori antieuropeisti.
Ecco allora che con Draghi è parsa riaprirsi la stagione delle virtuose speranze. La politica cambierà rotta, si diceva, i partiti anti-sistema diventeranno forza di governo, i media a seguire passeranno dal pettegolezzo al ragionamento, si chiuderà l’era dell’anti-politica. E pazienza se per alcuni pessimisti cronici come Cacciari l’arrivo di Draghi certifichi la fine del ceto politico. C’è piuttosto da augurarsi che esso non certifichi anche la fine del pluralismo mediatico dato che a fronte del pressoché unanime coro di elogi solo sul “Manifesto” spiccava un articolo controcorrente di Marco Revelli, l’unico a ricordare un episodio circondato da un rigoroso silenzio: la famigerata lettera Draghi-Trichet.
Questa lettera “strettamente riservata” venne inviata dalla Banca Centrale Europea al governo italiano mentre gli Italiani erano in ferie (è datata 5 agosto 2011) e il paese scricchiolava sotto il peso del debito (sovrano). Iniziava con un poco protocollare “Caro Primo Ministro” e terminava con un cortese “Confidiamo che il Governo assumerà le azioni appropriate” come in uso tra un capo e un subordinato. Recava le firme dell’allora presidente della Bce Jean-Claude Trichet e di quello sul punto di diventarlo, Mario Draghi.
Invitava tra altre cose lo Stato italiano – per meritare la fiducia di chi detiene i cordoni della borsa – a privatizzare “su larga scala” i servizi locali, a comprimere le pensioni di anzianità tramite “più rigorosi i criteri di idoneità”, a “rafforzare le regole per il turnover” nel pubblico impiego e “se necessario” a ridurre gli stipendi.
Tutto questo da farsi tramite decreto-legge per poi provvedere a cambiare la costituzione introducendo il pareggio di bilancio. Altroché democrazia locale e principio di sussidiarietà – due parole-chiave della grande narrazione europeista. “Whatever it takes”, per Mario Draghi, come si vede può venire declinato in vari modi a seconda dei destinatari e dei beneficiari.
Così se ai bei tempi delle grandi speranze e dei grandi ideali europeisti il consiglio dei ministri costruito da Prodi assomigliava ad un consiglio di facoltà, la squadra presentata oggi da Draghi evoca un consiglio di amministrazione: contano l’amministratore delegato e un paio di suoi uomini di fiducia, affiancati da una manciata di tecnici (o tecniche).
Gli altri – il ceto politico – sono puri figuranti: nessun problema, quindi, ad accontentare i vari partiti e riconfermare una pattuglia di vecchi nomi nei quali sarebbe veramente difficile individuare gli “alti profili” di cui tanto si è parlato per così poco tempo.