Tra le pagine della cronaca e dei registri statistici si legge che nell’ultimo anno sono in deciso aumento le violenze domestiche, i casi di disturbi alimentari e di autolesionismo, mentre una patologia si sta diffondendo in maniera particolare: la panofobia, ovvero la paura di qualsiasi cosa.
Si tratta di un sentimento indistinto e generalizzato di timore che, secondo un recente rapporto del Censis, affligge oggi circa sei milioni di italiani, incidendo in particolare sulla popolazione femminile.
Eppure sul proscenio della retorica quotidiana sfilano valori positivi come la salute, la cura dei fragili e degli indifesi, la responsabilità civile, la solidarietà e addirittura un inedito senso di fratellanza universale in quanto figli eterogenei di un’unica specie, colta all’unisono dallo stesso identico male. Al di là di etnia, religione, lingua e inclinazione politica siamo tutti legati dal medesimo fine: neutralizzare l’invisibile nemico per riprendere ciascuno a modo suo la corsa nello spazio globale. Allora un po’ di sacrificio personale e sociale (altro antico valore educativo) è soltanto un benefico passaggio in vista di una liberazione collettiva.
Ma la pedagogia pandemica non si arresta qui. Dietro le quinte mediatiche, tra le vie struccate delle città, tra le mura sempre più abitate delle proprie case e le pareti spaurite della mente i valori hanno fatto una capriola per leggersi infine ribaltati. Distanziamento, diffidenza, delazione, paura ed isolamento da qualità negative sono diventate ora i pilastri di un nuovo galateo sociale, retto da un proprio peculiare lessico in cui i gesti barriera murano il contagio, nella speranza di spegnere il focolaio sotto l’ombra protettrice del coprifuoco. Tutta una costellazione buona ad alimentare il focolare di un unico sostanziale valore: la salute, quella fisica.
Sotto l’ombra certa della giustizia sanitaria, sorge allora un dubbio: a furia di fondare il vivere sociale su valori di negazione, non è che si finisca col gettare le basi di una futura società violenta? Di un’inedita violenza, caratterizzata non dall’azione della forza ma dalla sua negazione. Una violenza senza corpo che implode nei meandri dei processi psichici, si manifesta sul proprio corpo inerme, si sfoga sui corpi indifesi di chi ci sta attorno. Una forza sprecata e deviata in fobie e disturbi alimentari, autolesionismo, violenze familiari o di gruppo.
E forse il seme germoglia già nell’infanzia. Immaginiamo oggi un bambino giocare in un parco mentre i genitori lo istruiscono: stai attento figlio mio, non avvicinarti troppo al prossimo, non abbracciarlo e magari suda, suda pure ma non toccare il prossimo! Nel frattempo il genitore con occhio grave guarda gli altri, vede se ci sono i germi di un pericoloso assembramento e come si comportano gli altri genitori nei confronti dei propri figli. Il bambino gioca, suda ma in fondo è fermo. La stasi in una società fondata sul movimento è in sé stessa una pericolosa forma di violenza che nega ogni possibilità di incontro con il rischio, l’imprevedibile e il casuale.
Ma allora dov’è oggi il corpo della violenza?
Quella che scorre sul web tra parole inette e vigliacche. O quella sistematica in cui gli individui diventano anonimi punti di un aggregato insignificante. Una violenza senza corpo quella dei morti esposti come numeri sul calendario dei giorni. E non appena la violenza esce dal nido della negazione per affermarsi su altri corpi, ci stupiamo e gridiamo allo scandalo. Un genitore ucciso da un figlio, donne massacrate dai propri compagni: la violenza familiare resta quella più semplice e vigliacca perché esercitata su corpi che ormai si credono posseduti e quindi indifesi. Baby gang all’assalto di coetanei, un barbone o dei semplici passanti! Un insieme di ragazzini che da soli respirano nell’inconsistenza, quando si cementano in gruppo, finalmente avvertono il proprio corpo e allora il gruppo diventa un muro imprevedibile, un corpo sociale che può trasformare la violenza negativa in qualunque forma di violenza positiva.
Una violenza giovanile, raffigurabile come un coltello teso contro un tempo appiattito, in cui si può digitare la vita degli altri senza toccarla. Quando la digitazione arriva al culmine ecco allora il coltello scagliarsi contro il corpo, il proprio. (Sintomatica a tal proposito la decisione del governo francese, che ha deciso di finanziare dieci sedute psicologiche per ogni giovane in difficoltà)
Al di là di ogni età, sotto traccia agisce un’altra e ancor più subdola violenza: il senso di colpa. Ci sono voluti decenni per attenuare il suo peso, intriso di cattolicesimo e freudianesimo. Ed eccola rispuntare di nuovo. Chiunque oggi osi protestare per ragioni lavorative, economiche o semplicemente libertarie mentre altre persone muoiono, è spinto a sentirsi un opportunista ed un individualista.
Se osi esprimere un’opinione diversa rispetto a quella comunemente condivisa sei un incosciente disinformato. Se desideri incontrare gli altri e limare la sacra linea del distanziamento sei un irresponsabile. Insomma l’intera vita sociale è diventato un infinito palazzo ospedaliero, nei cui corridoi si snoda un labirinto segnato da morte e cura. E chiunque al suo interno infranga le regole deve esser battezzato come un criminale perché infrange il codice imposto. Se infrangi le regole ti attende la colpa, se le assecondi finisci con l’accudire la paura. Il risultato non cambia: dal seme della negazione nasce il fiore della violenza.