Finalmente è arrivata la primavera. Il mio giardino è un incanto di fiori; un cespuglio di lavanda, piantato senza troppa convinzione anni fa, è ora uno spettacolo, folto di fiori di un color viola incantevole su cui sciamano e ronzano bombi e api bottinatrici. Intorno tutto è fiorito; margherite e fiori selvaggi ovunque, e il fiume Taro, ingrossato dalle abbondanti e recenti piogge, mi scorre innanzi placido e maestoso, come se non si accontentasse di essere un umile affluente appenninico del magno Po, ma pretendesse di essere un piccolo Volga nostrano.
Guardo le sue acque fluire su cui ora volteggiano e planano Aironi, Cormorani e perfino qualche Gabbiano che ha dimenticato la via del mare. Insomma, quasi un idilio di tarda primavera, e la tentazione dell’abbandono sentimentale e della retorica è forte e stringe il cuore.
Carlo Michelstaedter scrisse La persuasione e la rettorica, un piccolo trattato filosofico che fu la sua tesi di laurea; tesi di laurea mai discussa, perché l’autore a soli ventitré anni pose fine ai suoi giorni con un colpo di rivoltella. A leggerla, in verità, è una cosa un po’ tecnica, non facile da digerire per i non addetti ai lavori. In estrema sintesi: Rettorica è tutto ciò che ci illude, che ci allontana dalla vita autentica e dalla verità; persuasione, il suo esatto opposto.
La retorica o rettorica, già, proprio lei. Thomas Stearn Eliott ha scritto che la primavera è ingannevole, roba da innamorati, e che aprile è il più crudele dei mesi; mi permetto di aggiungere che maggio non è da meno. Crudele, ma perché? Perché, oltre ai significati esoterici che ogni vero poeta nasconde nei suoi versi, le promesse della primavera non vengono mai mantenute: al tepore e al sole primaverile i cuori si illudono. Ci penseranno il caldo torrido dell’estate e le prime giornate umide e nebbiose di ottobre a toglierci l’illusione.
In Palestina in questi giorni neppure la primavera riesce a illudere le persone. Nella striscia di Gaza, la più grande prigione a cielo aperto del mondo, dove vivono in condizioni difficili, precarie, e in questi giorni drammatiche, un milione e ottocentomila esseri umani, non volano gli aironi e i cormorani e probabilmente anche i gabbiani si tengono alla larga; ma volano come nazgûl, gli spettri al servizio del tenebroso Sauron, personaggio chiave e signore del male nel capolavoro di Tolkien, i modernissimi caccia F16 dell’aviazione sionista.
In questi giorni a Gaza City non si ascolta il mormorio placido del fiume dopo le piogge, e neppure il ronzio dei bombi e delle api bottinatrici, ma il rumore assordante delle esplosioni, l’urlo rabbioso dei caccia in picchiata e il pianto, il pianto delle donne, dei vecchi, dei bambini fatti a pezzi dalle bombe. Un orrore infinito con una copertura mediatica, almeno da noi, mediocre.
Una informazione che ci racconta che sì, a Gaza city piovono le bombe, gli edifici crollano, i bambini muoiono, ma anche i palestinesi lanciano razzi che cadono su Israele causando vittime. Vero, anche se ci si dimentica di dire, che non c’è proporzione fra i mezzi, gli strumenti di offesa e difesa e il numero delle vittime, che a Gaza è infinitamente più elevato. Sfugge nel bla bla distratto dei telegiornali ogni senso della proporzione, e della verità.
Sono troppo impegnati gli italiani ad informarsi sulle prossime riaperture, sui vaccini, sulle possibili vacanze, per prestare molta attenzione ad una guerra che sentono tutto sommato lontana, che non li sfiora, e diciamolo, che un po’ anche li annoia. Perché nella percezione media collettiva, il conflitto arabo-israeliano viene ormai vissuto come un evento quasi stagionale; una notizia fastidiosa di guerra, di attentati, di orrori vari che periodicamente risorge; una ferita ormai cronica nella quale non si capisce dove stiano i torti e le ragioni, dove, mal digerendo la pappa dell’informazione cosiddetta mainstream, ci si è dimenticati completamente dell’asimmetria enorme, non solo delle forze in campo, ma anche delle ragioni.
Che se la vedano tra loro, è in molte persone il pensiero ricorrente. E poi Israele non è forse quel paese moderno e democratico, l’unica democrazia del Medio Oriente, che con tanta efficienza e solerzia ha organizzato la vaccinazione di massa dei suoi abitanti?
La verità si è oscurata nei decenni che ci separano dalla nascita dello Stato sionista; da quel 1948 e da quella guerra dei sei giorni del 1967 quando Israele andò ad occupare Gerusalemme Est, la Cisgiordania e le alture del Golan, costringendo i palestinesi a vivere sotto un regime di occupazione militare e di apartheid.
Basterebbe anche solo leggere ogni tanto un quotidiano israeliano con il vizio dell’equilibrio e dell’onestà intellettuale come Haaretz, per rendersi conto della sofferenza quotidiana e delle umiliazioni infinite a cui da decenni i palestinesi sono sottoposti: Occupazione illegale delle loro terre con la costruzione di insediamenti coloniali; abbattimento sistematico delle loro case e dei loro oliveti, dei loro agrumeti, di tutto quello che può sostentarli; arresti arbitrari nella notte, anche di bambini non ancora adolescenti. E poi l’ultimo imperdonabile sfregio, l’irruzione violenta di poliziotti in assetto di guerra nella moschea di Al Aqsa, uno dei luoghi più sacri dell’Islàm.