La squadra femminile norvegese di pallamano è stata multata per non essersi presentata in mutande.
Sta per iniziare la partita che deciderà chi otterrà il bronzo nel campionato femminile di pallamano in spiaggia, da un lato la Norvegia e dall’altro la Spagna.
Prima della partita si parla di tensioni fra la squadra norvegese e la Federazione europea di pallamano, il mistero viene svelato quando le giocatrici entrano in campo.
Le giocatrici norvegesi entrano in campo con una divisa “insolita”, invece di presentarsi indossando la parte inferiore del bikini, di fatto delle mutandine, si presentano con degli short. Il risultato? La Federazione multa l’intera squadra.
Siamo soliti sentire di queste storie nel contesto delle bizzarre vicende del régime anti-religioso francese dove per mostrare la tua sottomissione al dio Stato devi denudarti. Siamo un po’ meno soliti sentire di queste storie nel mondo dello sport.
Le giocatrici della squadra norvegese avevano chiesto il permesso di indossare una divisa meno succinta e più discreta per sentirsi più a loro agio e per dare un segnale di inclusione per tutte quelle donne attratte da questo sport ma che finiscono per allontanarsi a causa del regolamento voyeuristico sull’abbigliamento.
La giustificazione della Federazione è stata che le giocatrici indossavano abiti “non appropriati” mentre la squadra ha affermato di sentirsi minacciata di espulsione dalla Federazione.
Certo, le regole sono regole e quelle della Federazione internazionale di pallamano sono chiare, anche troppo. Le donne “devono indossare i bikini bottoms” che tradotto non significa altro che “le donne devono presentarsi in mutandine”. Il regolamento è perversamente esigente arrivando a spiegare che la larghezza delle mutandine deve essere di “un massimo di 10 centimetri”. Agli uomini è consentito indossare degli short più lunghi fin tanto che arrivino ad almeno 10 centimetri dal ginocchio. E meno male!
La Federazione di pallamano norvegese ha supportato la decisione delle ragazze del team affermando che pagherà per loro l’ammenda ricevuta.
Certo è che questo caso fa pensare non poco alla deriva socio-culturale che l’Europa e l’Occidente per estensione sta prendendo. Risulta difficile non accostare questa vicenda alle tante vicende di ordinaria oppressione subita dalle innumerevoli donne musulmane da parte individui, aziende, Stati e istituzioni che perversamente chiedono loro di denudarsi.
Ieri era la Francia a chiederlo, di recente è stata l’UE ad aver tentato di denudare le donne musulmane con la recente sentenza della Corte Europea che ha esteso la possibilità di divieto di indossare il velo per le lavoratrici musulmane, domani chissà!
Ho sottolineato più volte le forti contraddizioni e la componente neo-colonialista di questa tendenza perversa. I discorsi dei diritti delle donne e l’importanza dell’accesso al mondo dell’educazione e quello del lavoro vengono schiacciate senza tanti complimenti di fronte al gesto ultimo di sottomissione di fronte al dio Stato, il denudamento.
Non importa se la donna musulmana praticante convinta della propria religione attui un’obiezione di coscienza e voglia educarsi ed essere indipendente tramite il lavoro. Per questa tendenza perversa una donna che vuole vestirsi e che ha dei valori non merita di lavorare e non merita di essere istruita. Forse solo le più distorte fatwe wahabite-kharijite si avvicinano a tanta hubris ed oggi un’altra ideologia malata, quella liberal-secolare-progressista, può dirsi degna contendente all’oro, rimanendo in tema sportivo.
Ci tengo a sottolineare che la mia non è una critica al regolamento sugli abbigliamenti. Tralasciamo la curiosa pratica culturale secondo la quale in città girare in mutandine e reggiseno ti assicura una multa ma non in un’area geografica con un tasso di umidità maggiore (il mare per intenderci). E’ la direzione del regolamento ad essere problematica.
E’ ben risaputo che gli abiti in ambito sportivo femminile siano sessualizzanti e questo non stupisce troppo nella nostra società odierna dove per alcune femministe farsi filmare mentre si è negli atti sessuali più stravaganti davanti ad una telecamera dietro la quale vi sono milioni di pervertiti è considerato “liberatorio ed empowering” per la donna (parliamo della triste piaga del porno).
La soluzione a questo problema è semplice per alcuni e complessa per altri in base alla proprio posizione epistemica. Per un musulmano la soluzione è semplice: vestirsi. Per un liberal-progressista la soluzione è ugualmente semplice: denudarsi in toto. Per i relativisti utilitaristi invece questo problema è pressoché impossibile da risolvere.
Tralasciando la mia preferenza per la prima opzione, quello che è utile è ragionare sulle cause fondamentali per cui si spinga con così tanta foga per una aggressiva sessualizzazione. Tralasciando la discussione sui diritti ad esempio, perché alcuni progressisti anche arcobaleno considerano così problematico che l’educazione alla sessualità sia lasciata ai genitori piuttosto che alle istituzioni come la scuola? O, se vogliamo affrontare la problematica da un’altra angolatura, perché questi stessi progressisti vogliono sottrarre ai genitori il diritto dell’educazione sessuale e della sessualità e darla in mano alle istituzioni e a quei movimenti ideologici le cui pratiche sessuali non possono risultare nell’avere figli?
La discussione sulla sessualità e la società è una discussione di grande rilevanza perché parliamo del significato e dell’interpretazione che si dà dell’atto a dir poco miracoloso che porta alla nascita di nuovi esseri viventi coscienti oltre che garantire la sopravvivenza della specie. Dalla sessualità origina il nucleo sociale istituzionale più fondamentale e saldo, quello della famiglia biologica, un nucleo che le istituzioni emulano goffamente nella funzione e che altri movimenti vogliono in qualche modo dirottare e prendere in ostaggio.
In conclusione, la scelta più sensibile per uno Stato laico non può che essere quella di adottare un approccio realmente neutrale e non un approccio pseudo-inclusivo in cui ogni minoranza militante debba essere protetta e promossa. Quanto alla sessualità, la tematica deve essere discussa non in termini di slogan come “mi vesto come voglio”, è uno slogan superficiale, non fattuale anche nelle società più progressiste, e non funzionale ad una società sana che mira a svilupparsi ulteriormente.
Un punto di partenza potrebbe invece essere quello di trovarsi d’accordo sul fatto che vestirsi è meglio di essere nudi e che chiedere sensibilmente ad un uomo o una donna di non uscire in mutandine è meglio che domandare perversamente che si spogli dettando i centimetri massimi di larghezza che la mutandina può avere per fare una partita di pallamano.
Da musulmano non posso che vedere l’abito come simbolo dell’eccezionalità umana sugli animali e manifestazione fisica delle sue virtù e aspirazioni interiori. Non posso dunque che chiudere questa riflessione con un verso coranico che mi sembra oggi più rilevante che mai:
“O figli e figlie di Adamo, facemmo scendere su di voi un abito che nascondesse la vostra vergogna e per ornarvi, ma l’abito del timor di Dio è il migliore. Questo è uno dei segni di Dio affinché riflettano!” Corano 7:26