Mentre l’Afghanistan torna sotto il governo dei Talebani, il dibattito online rivela il ruolo fondamentale della fiction nel plasmare le narrazioni e l’immaginazione collettiva dell’altro che è stato invaso.
Venti anni dopo l’inizio dell’occupazione dell’Afghanistan da parte degli Stati Uniti, la retorica del “chi proteggerà le donne povere e indifese?” è ricomparsa. Soltanto pochi si rendono conto di quanto la letteratura e i media attuali siano stati strumentali nell’influenzare l’opinione pubblica e nel nascondere l’occupazione occidentale e i crimini di guerra nel paese.
Alla fine del 2001 gli USA, la Gran Bretagna ed i loro stretti alleati hanno invaso l’Afghanistan col pretesto della cattura di Osama Bin Laden che era protetto, ci è stato detto, dai barbari e arretrati Talebani.
I Talebani erano andati al potere nel 1996 ed avevano sostituito il governo corrotto e violento dei vari signori della guerra che c’erano prima di loro. Ma era esclusivamente sotto i Talebani, sostenevano gli americani, che le donne afghane erano diventate davvero delle vittime, ed avevano bisogno di essere salvate.
Pertanto, nella dichiarazione fatta per giustificare la missione dell’invasione statunitense dell’Afghanistan (denominata “Operazione Enduring Freedom”) da G.W. Bush, vi era anche la presunta liberazione delle donne afghane.
L’utilizzo del femminismo per colonizzare, invadere ed umiliare un popolo o una cultura non è nuovo. La pratica risale a decine e centinaia di anni fa ed era già presente nella letteratura orientalista e nella politica estera.
Ma ciò che rende l’invasione ed i successivi venti anni di occupazione dell’Afghanistan unici, non è solo l’uso delle bombe e della violenza per ‘liberare’ le donne afghane dal burqa (ampiamente giustificato dalle cosiddette femministe e filantropi), ma anche tutta la vasta letteratura (narrativa e saggistica) uscita dagli “addetti ai lavori”, conoscitori della regione, che difendevano la necessità di intervento e l’occupazione in corso.
Nel 2003, l’autore afghano-americano Khaled Hosseini esordì col suo best-seller a livello mondiale, Il cacciatore di aquiloni. Best-seller del New York Times, il libro ha venduto decine di milioni di copie in tutto il mondo, è stato tradotto in 42 lingue e addirittura trasformato in un film ad alto budget.
Hosseini è nato a Kabul negli anni ’60, ma ha trascorso poco tempo in Afghanistan. Suo padre, un diplomatico di Kabul, si trasferì con la famiglia a Parigi negli anni ’70 e successivamente chiese asilo negli Stati Uniti. Nel 1999 Hosseini scrisse per la prima volta Il cacciatore di aquiloni, ma solo come racconto breve. Presentò il manoscritto a varie case editrici solo per essere rifiutato. Mise da parte il libro fino al 2001, quando ha iniziato a trasformarlo in un romanzo vero e proprio.
Il libro è stato pubblicato, guarda caso, nel 2003, al culmine dell’occupazione americana dell’Afghanistan, quando l’opinione pubblica stava cambiando. Sebbene il romanzo sia ambientato negli anni ’80, durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan, dipinge un’immagine di una terra e di un popolo che si potrebbero facilmente immaginare anche ai giorni nostri.
Un paese devastato dalla guerra, è governato da fanatici religiosi tiranni e la sua gente anela alla libertà e alla liberazione. E’ facile capire perché il libro sia diventato un best-seller in occidente.
Il libro raccontava una storia che sembrava autentica e con una narrazione della quale ci si poteva fidare. Dopotutto, Hosseini era un vero afghano, nato a Kabul, non avrebbe venduto la sua patria per favori politici o per soldi, o no?
In risposta alla recente riconquista di Kabul da parte dei Talebani, il 15 agosto scorso, Hosseini ha dichiarato in un’intervista: “Per molte persone l’Afghanistan è sinonimo di conflitto, guerra, persecuzione e sfollamento”.
Hosseini ha ragione.
Tuttavia, Il cacciatore di aquiloni ed il suo secondo libro, Mille splendidi soli (anche questo un best-seller) dipingono l’Afghanistan ed il suo popolo come nient’altro che gente violenta, intrappolata in guerre e persecuzioni. Certamente una realtà, ma non è l’unica, né quella dominante.
Esaminiamo ulteriormente questi due libri. In Il cacciatore di Aquiloni , il protagonista è un ragazzo hazara (un gruppo etnico duramente perseguitato in Afghanistan) che fa volare gli aquiloni per sfuggire agli orrori della vita quotidiana. L’antagonista, Assef, è un pashtun che crede che la propria razza sia superiore agli hazara. Un prepotente che stupra i ragazzi, Assef è anche un convinto sostenitore del nazismo. Il libro dipinge la classe dirigente pashtun, attraverso Assef e le sue azioni, come razzista, misogina e mostruosa.
Di conseguenza, tutti i Talebani, la maggior parte dei quali sono membri della tribù pashtun, sono classificati allo stesso modo. Più avanti nel libro vediamo gli stessi luoghi comuni: uomini afghani barbuti con i turbanti che sfruttano sessualmente i bambini, opprimono le loro donne e praticano una forma di Islam fanatico che non merita altro che di essere condannato.
In Mille splendidi soli la protagonista è una donna, ma gli argomenti sono più o meno gli stessi – violenza ed abusi. Pubblicato nel 2007, anche questo è diventato un best-seller e, secondo Hosseini, voleva raccontare una storia che trattava della condizione delle donne afghane: “Sono andato a Kabul [nel 2003] e ricordo di aver visto queste donne in burqa sedute agli angoli delle strade, con quattro, cinque, sei bambini, che chiedevano l’elemosina”.
La storia narra del ‘racconto eroico’ di due donne sposate con un uomo molto più vecchio di loro. All’età di 15 anni Mariam è una sposa bambina e Laila una bellezza senza pari, sono entrambe violentate, maltrattate e costrette a coprirsi dal loro spregevole marito – Rashid – un fedele seguace del sistema della Sharia (la ‘legge islamica’) applicato dai Talebani.
Il libro è stato applaudito universalmente dai commentatori occidentali, con le protagoniste femminili descritte come “sorprendentemente eroiche, i cui spiriti, in qualche modo, afferrano i più deboli raggi di speranza” e Rashid come “uno dei maschi più ripugnanti della letteratura recente”. E ancora, l’antagonista Rashid è di etnia pashtun (come lo sono i Talebani), mentre le sue due mogli sono entrambe tagike (un altro gruppo etnico perseguitato in Afghanistan).
I temi del vittimismo femminile, dell’oppressione delle minoranze e del desiderio di libertà sono esattamente ciò di cui gli Stati Uniti ed i loro alleati avevano bisogno per mantenere – e giustificare – la loro occupazione illegale.
L’Afghanistan è un luogo spaventoso e senza l’invasione si verificherebbero crimini indicibili. Lo stesso Hosseini è noto pubblicamente per aver sostenuto l’invasione guidata dagli Stati Uniti nel 2001 e mantiene, senza nessun problema, una stretta alleanza con G.W. Bush.
Mentre Hosseini chiarisce che i suoi romanzi sono fiction, per molti rappresentano invece l’unica finestra aperta sull’Afghanistan. E’ sorto anche un genere di letteratura simile a questa, che cercadi trarre profitto dalla guerra.
Le rondini di Kabul (scritto dall’autrice algerina Yasmina Khadra nel 2002) racconta una storia simile di oppressione, abuso e sfruttamento. Storyteller’s Daughter pubblicato nel 2004 da Saira Shah, un’afghana britannica (figlia del famoso scrittore sufi Idriss Shah) racconta una storia, in parte autobiografica e in parte romanzata, sulla difficile realtà dell’Afghanistan. Molti altri libri, tra cui Three Cups of Tea, The Bookseller of Kabul, The Favoured Daughter ripetono gli stessi temi e stili.
Nel 2017 anche Angelina Jolie si è lanciata nella causa del ‘dare voce a chi non ha voce’ e ha prodotto un’animazione straziante, I racconti di Parvana, storia di una giovane ragazza che supera incredibili avversità in una terra barbara ed ostile per provvedere alla sua famiglia.
La ricchezza e la diversità dell’Afghanistan e del suo popolo sono state messe in ombra da storie pericolosamente riduttive, che, nonostante le loro buone intenzioni, hanno amplificato una realtà e seppellito molte altre.
In una recente intervista Hosseini ha detto “[l’Afghanistan] è un paese bellissimo, con bellissime persone, che hanno la poesia nel loro cuore, che sono umili, che sono ospitali e gentili. Non meritano i 40 anni di violenze e persecuzioni e crudeltà che hanno dovuto sopportare”.
La maggior parte delle persone sarebbe d’accordo con questa affermazione. E’ un peccato però che non sia riuscito a riportare questo messaggio da nessuna parte nei suoi libri. E’ una vergogna che abbia alimentato il tribalismo (qualcosa che afferma di detestare), attraverso la caratterizzazione unidimensionale della maggioranza etnica pashtun.
Ed è una vergogna che abbia spinto per la liberazione e i diritti delle donne attraverso lo strumento della guerra e dell’occupazione straniera, trascurando la morte e la distruzione della sua patria, che ha provocato oltre 100.000 morti, 5 milioni di sfollati e moltissimi altri feriti e traumatizzati per le generazioni a venire.
Artcolo originale di Zirrar Ali* pubblicato su TRT World
Zirrar è uno scrittore e fotografo residente a Londra, che ha trascorso l’ultimo decennio viaggiando tra Nord Africa, Egitto e Hejaz fino alle terre del Khorasan. Il suo lavoro riflette la sua volontà di rivitalizzazione culturale e identitaria nella quale la forza e la bellezza dell’Islam possono essere riscoperte e condivise.