Sulla Tunisia, dopo la presa del potere del Presidente della Repubblica Kais Saied la notte del 25 luglio, è calato un silenzio che contrasta con le manifestazioni di giubilo a suo tempo tributate a quella che i media occidentali chiamavano compiaciuti la “rivoluzione dei gelsomini”.
Mentre le cancellerie procedono con mosse prudenti, ciascuna impegnata sul proprio scacchiere, la società civile continua a mostrarsi stranamente afona come del resto lo è stata, in questi mesi, la diaspora tunisina. Quest’ultima tuttavia ha rotto il silenzio sabato scorso con una manifestazione di protesta davanti al Consolato Tunisino a Milano.
Convocata da un neonato “Comitato Immigrati Tunisini contro il Colpo di Stato”, la manifestazione ha inteso protestare “contro le violazioni dei diritti umani in Tunisia e l’arresto del processo democratico” e segue di una settimana quella, assai più massiccia, svoltasi a Tunisi di fronte al Parlamento per richiederne l’apertura e la fine dello stato d’eccezione.
Era un modesto ma agguerrito drappello quello che per tre ore, nel nebbioso pomeriggio autunnale, ha alternato discorsi, musica e slogan. “Siamo un movimento sociale, senza leader” spiega uno degli organizzatori, Saber Yacoubi, giornalista tunisino residente in Trentino, esperto di geopolitica. “A me i ragazzi hanno semplicemente chiesto di fare da coordinatore. Siamo perlopiù apolitici. Ma abbiamo capito che dovevamo far sentire la nostra voce. Sono passati quattro mesi dal 25 luglio. Sappiamo che i Tunisini sono delusi perché il Parlamento non ha concluso niente in questi dieci anni. Era diventato un ring per le battaglie ideologiche mentre noi abbiamo bisogno di fatti. C’era come l’attesa di una scossa. Qualcuno tra noi ha pensato che il 25 luglio avrebbe portato un cambiamento positivo, sfociando magari in elezioni anticipate. Dopo quattro mesi, però, abbiamo ormai la certezza che Kais Saied vuole solo accumulare potere. Noi qui in Italia, come hanno fatto i Tunisini in Francia, in Olanda, a Bruxelles, vogliamo oggi far sapere a quelli che resistono nel paese che non sono soli. Ci siamo anche noi emigranti, siamo un milione e cinque, forse un milione e settecentomila”
Con posizioni diverse però. “All’inizio il colpo di stato è stato effettivamente appoggiato da certe élites intellettuali, certe forze politiche, alcuni partiti. Ma adesso questi hanno capito che non c’è posto per loro nel progetto di Kais Saied. Lui vuole distruggere quelli che chiama i corpi intermedi, le associazioni, i partiti politici, il suo modello è Gheddafi”: E in Italia? “Quelli che sono contro Kais Saied oggi sono molti di più di quelli che sono a favore. Lui ha riscosso un consenso iniziale toccando punti dolenti: la corruzione e il clientelismo. Ma a tutt’oggi gli arrestati sono due giornalisti e tre politici, che tutti hanno in comune l’aver criticato il presidente, mentre i corrotti sono sempre al loro posto.” Veramente molti giovani hanno sostenuto Kais Saied e continuano a farlo … “Quando hai disperatamente bisogno di un cambiamento ti allei anche con il diavolo. Per questo noi, pur contrari al metodo di Kais Saied, siamo stati quattro mesi in attesa di vedere il seguito.”
Chiarissimo, anche se alcune voci lungimiranti, in particolare quella del vecchio Hamma Hammami – marxista, operaista e antislamista – già all’indomani del 25 luglio denunciavano il ritorno alla dittatura. Ma come mai l’odierno movimento trasversale e internazionale che nei suoi comunicati usa senza tentennamenti i termini di “colpo di stato” e “dittatura” sembra aver fatto poco per coinvolgere la società civile italiana, i media, l’opinione pubblica? “Ammetto che in questo abbiamo avuto qualche lacuna” risponde Yacoubi. “Ma se oggi manifestiamo davanti al consolato è soprattutto perché abbiamo scelto di fare un discorso rivolto all’interno: vogliamo parlare al paese, e dare un segnale chiaro alle sue autorità.” L’opinione pubblica italiana non è stata esclusa a priori – un comunicato stampa è stato debitamente preparato, e così pure dei volantini – ma forse lo si è fatto con una certa timidezza, se di stampa se ne è vista poca e di non tunisini pressoché nessuno. Del resto la scelta della location, un viale poco frequentato, così come l’uso prevalente della lingua araba, non sono fatti per attrarre un pubblico casuale. Quasi che all’interno di questo movimento vi siano differenze, non di obiettivi ma di metodo.
Sul metodo infatti è molto critica Mouna El Baba, che si qualifica dicendo: “Io sono qui come partecipante”. Di Rovereto, madre separata di cinque figli, un impegno civile che l’ha anche vista candidata un anno fa alle elezioni municipali, le dispiace di aver ricevuto l’avviso della manifestazione solo il giorno prima. “I miei due figli maggiori, di diciassette e diciott’anni, sarebbero senz’altro venuti se lo avessero saputo in anticipo.” Come mai queste carenze? “Non hanno coinvolto nessuno perché questa è la vecchia mentalità della vecchia generazione, dura a morire, rinchiusa su se stessa. Non c’è verso di fargli cambiare metodo: così hanno deciso, così si fa”.
Anche la giovane Zeineb Abbes, laureanda in Giurisprudenza e collaboratrice di uno studio legale, che è uno dei contatti indicati sul comunicato stampa e ha in braccio un pacco di volantini, parla di “vecchia mentalità”. Esordisce decisa: “Mi vergogno. Siamo caduti dalle stelle alle stalle! Pensare che la Tunisia è stato il primo paese che ha dato il via alle sommosse nei paesi arabi, pensare che nel 2015 il paese ha avuto il Nobel per la pace, e vedere adesso che fine stiamo facendo – è una vergogna!” Come mai siete ancora in pochi a denunciarlo? “Glielo dico io perché la comunità è così tiepida. Perché hanno una mentalità vecchia e non li schiodi. Sono ignoranti. No, non nel senso di illetterati, c’è gente con laurea e dottorati! Ma perché vedono una sola cosa, gli islamisti. Sono la loro ossessione, non gli importa del resto.”
Ci sono anche altre spiegazioni. “C’è poco interesse per la politica” afferma l’imam tunisino Ben Mohamed della moschea di Centocelle a Roma, una delle più attive, frequentata anche da molti italiani. E c’è un vero e proprio odio, assai diffuso, per il Parlamento. La comunità degli emigrati tunisini, in parole povere, assomiglia molto alla più ampia società italiana di cui è parte integrante. E che continua a non capire quanto interesse abbia l’Italia ad avere un vicino di casa democratico con cui intrattenere un rapporto privilegiato – cedendo amabilmente il proprio vantaggio competitivo alla Francia la quale ha mostrato ancora una volta, ricevendo all’Eliseo la prima ministra Bouden, di preferire, per la Tunisia, un regime autoritario. Se la diaspora tunisina si sta svegliando, forse dovrebbe farlo anche la società civile italiana..