Con un decreto pubblicato sul JORT (la Gazzetta ufficiale tunisina) il nuovo autocrate della Tunisia Kais Saied ha sostituito la festa nazionale della Rivoluzione, che dal 2011 si celebrava il 14 gennaio, giorno della fuga di Ben Ali, con quella del 17 dicembre 2010, giorno in cui il venditore ambulante Bouazizi si è dato fuoco scatenando le sommosse che hanno portato alla caduta del regime.
La portata simbolica del provvedimento presidenziale è perfettamente in linea con le procedure di riscrittura della storia delle dittature populiste. Esso rivendica il primato della rivoluzione dei ceti popolari e rurali delle aree interne contro quella dei ceti medi urbani delle regioni costiere. Conferma altresì la volontà di fare piazza pulita della faticosa ma feconda transizione democratica che nel giro di un decennio ha dotato il paese di tutte le basi istituzionali di una moderna democrazia, volontà espressa a chiare lettere nel discorso del 13 dicembre, in cui ha annunciato de facto lo scioglimento del parlamento e l’abolizione della costituzione: fra sei mesi una nuova costituzione dettata dal presidente verrà sottoposta a referendum popolare e fra un anno un nuovo parlamento verrà eletto con una legge elettorale elaborata dal presidente e dai suoi esperti. Per quanto pochi sembrino rendersene conto, il paese, ultimo baluardo della “primavera araba” ormai venuta a noia ai più, è tornato alla casella zero del gioco dell’oca della democrazia.
Questo 17 dicembre, nuova festa della rivoluzione, tre manifestazioni si sono date appuntamento sulla storica avenue Bourguiba. Sulla scalinata del Teatro Municipale, spazio simbolico della rivoluzione, in pieno centro, si sono concentrati i sostenitori di Kais Saied in un tripudio di rosse bandiere tunisine: alfieri del nuovo culto della personalità avevano dispiegato grandi striscioni con la foto del presidente.
Le due manifestazioni dell’opposizione, quella dei “Cittadini contro il colpo di stato” e quella dei tre partiti socialdemocratici Attayar, Ettakatol e Al Jomhouri sono state relegate in fondo all’avenue, ai due lati di un altro luogo altamente simbolico: la piazza detta dell’Orologio, una grande rotatoria ribattezzata da Ben Ali “Piazza del 7 novembre” in onore del proprio colpo di stato, mentre l’immediato predecessore di Kais Saied, il defunto Béji Caid Essebsi, vi ha lasciato la sua impronta facendovi ricollocare la statua equestre di Bourguiba rimossa da Ben Ali.
Dopo la rivoluzione è diventata “Piazza 14 gennaio”, nome che porta ancora, chissà per quanto tempo, e lì sono state parcheggiate le manifestazioni delle opposizioni, a significare che sono ormai ai margini della storia. Facevano loro da sfondo i pilastri della sopraelevata che in quel punto scorre sopra l’avenue, ancora parzialmente ricoperti dei fantasiosi e coloratissimi graffiti realizzati, nei giorni della Rivoluzione, da giovani studenti e artisti, espressione della riconquista dello spazio pubblico confiscato per oltre vent’anni dal regime.
Come in precedenti manifestazioni, da ultima quella del 14 novembre davanti al parlamento, l’accesso ai luoghi di raduno era stato reso difficile dalla polizia. Ciononstante “erano abbastanza numerosi” dice Kalthoum che abitando in centro tiene d’occhio la piazza. “Anche perché la giornata era soleggiata …” I supporter di Kais Saied non erano tanti ma godevano di una efficace scenografia, le opposizioni, più numerose, erano divise e disperse tra anonimi palazzoni. “Poi comunque, a partire dalle 15, quando è iniziata la partita Algeria-Tunisia, per le strade non c’era più anima viva”.conclude Kalthoum.
In realtà qualcuno in serata c’era ancora. Si trattava degli esponenti del movimento “Cittadini contro il colpo di stato”, fondato i primi di novembre dal costituzionalista Jawhar Ben Mbarek, ex collega (e i maligni dicono rivale) di Kais Saied, che davano inizio ad un sit-in ad oltranza sotto lo slogan “Dégage Kais Saied”. Secondo Habib Bouajila, professore di filosofia, attivista politico e giornalista, le manifestazioni mostrano che Kais Saied non gode dell’appoggio delle piazze. “Quelli che hanno festeggiato la sera del 25 luglio, chi sono? In realtà non lo sappiamo, non sappiamo quanti erano.” Ha ragione: più passa il tempo, più ci si accorge di quanti pochi dati disponiamo su ciò che davvero è successo il 25 luglio. Al contempo nelle settimane che lo hanno seguito una diffusa soddisfazione – impasto di rancori appagati e speranze emergenti – si respirava nelle strade.
“Ci vuole una nuova classe politica” ammette Bouajila. Secondo lui “le élite tunisine sono sempre radicate nel popolo. Ciò che è venuto a mancare è la fiducia nella classe politica, segnata dalla polarizzazione ideologica. Ma il popolo rimane rivoluzionario e democratico.” Come si spiega allora la debole reazione alla presa di potere di Kais Saied, almeno fino a poco tempo fa? “Fino ad oggi l’esperienza democratica non può vantare grandi successi in campo economico e sociale. Forse c’è stato anche un problema di comunicazione. Non siamo riusciti a spiegare l’importanza delle istituzioni democratiche. Per questo oggi stiamo tentando di convincere gli strati popolari, soprattutto nelle regioni più arretrate, dell’importanza di un ritorno a queste istituzioni”. Anche l’opinione pubblica internazionale si mostra cauta.
“Abbiamo cercato di spiegare meglio ai nostri amici che Kais Saied ha violato la costituzione, che ha falsificato l’articolo 80. Abbiamo fiducia nei nostri partner europei. E se la Francia è sempre stata critica verso la rivoluzione tunisina, l’Europa ha interesse ad avere un paese democratico sull’altra sponda del Mediterraneo.” In fin dei conti Bouajila è ottimista. “Il popolo tunisino non è disposto a sacrificare la propria democrazia”. Intanto però, ventiquattro ore dopo l’inizio, il sit-in contro il colpo di stato è stato “temporaneamente sospeso” comunica Jawhar Ben Mbarek, “ a seguito dell’intervento della polizia, per garantire la sicurezza dei manifestanti e la continuità delle azioni che abbiamo programmato da qui al 14 gennaio.”
Anche Jamila Ksiksi, nota parlamentare con un passato di militante sindacale, reclutata in seguito da Ennahdha dove ha ricoperto incarichi importanti, prima di uscirne, recentemente, insieme ad una nutrita schiera di dissidenti, parla di opposizione in crescita “Comprende tanti partiti, tante organizzazioni della società cvile. Veramente ormai tutti i partiti sono critici, salvo il movimento Ecchaab [nazionalisti arabi].
Il 17 dicembre hanno detto tutti ‘no’ alla roadmap proposta da Kais Saied.” Eppure la società tunisina nell’insieme non sembra capace di reazioni forti. “E’ vero, siamo sotto choc. Non riusciamo ancora a metabolizzare quello che è successo. Però adesso i cittadini cominciano ad esprimersi, a manifestare il loro punto di vista. Sui social sono tutti contro. Ed è contro anche l’UGTT, il sindacato nazionale.” Ma allora, chi sostiene Kais Saied? “Tanto per cominciare l’opposizione è divisa. Kais Saied ne ha approfittato, così come ha approfittato della debolezza della classe politica. Poi, naturalmente, lui è sostenuto dalle forze armate e dalle forze di polizia.” E’ proprio il sostegno delle forze armate la variabile inedita di questo golpe. Nel 2011 si erano mantenute neutrali. “Ma Ben Ali aveva costruito il suo potere sulle forze di polizia. Kais Saied, appena sono emersi i conflitti tra presidente da un lato, parlamento e governo dall’altro, non ha perso occasione per ricordare che lui è il capo delle forze armate. Ha fatto appello alla cultura impersonata dalle forze armate, per le quali gli ordini del capo non si discutono. Anche oggi i militari si considerano neutrali. Non vogliono entrare nel sistema politico, non vogliono intervenire e prendere posizione tra Kais Saied e gli altri. Condividono come tanti il timore che se i militari si schierano la sicurezza nazionale si sfascia.”
E le regioni interne, quelle di cui Kais Saied si presenta come difensore? Quali segnali provengono da esse? “A Sidi Bouzid ci sono state delle manifestazioni il 17 dicembre: protestavano contro il cambiamento della data”. Protestavano anche, secondo radioexpressfm, contro l’abolizione della legge 38/2020 ad opera del presidente Kais Saied. Si tratta di una legge, fortemente voluta dal partito Echaab che sostiene Kais Saied, che prevede l’assunzione d’ufficio nella pubblica amministrazione, senza concorso, dei diplomati disoccupati iscritti da oltre dieci anni nelle liste di collocamento.
Viene incontro a rivendicazioni di vecchia data, scoppiate periodicamente, protagonisti i giovani dei ceti popolari di aree sottosviluppate cui nel corso degli anni è stato aperto l’accesso ad inutili diplomi. Kais Saied ha buon gioco a dire, oggi, a quei giovani “Ciò che chiedete è impossibile, vi hanno venduto dei sogni.” E tuttavia, a tutt’oggi, nessun segnale è arrivato dal presidente, e meno che mai dal suo governo, su come egli intenda risolvere alcune questioni tanto pratiche quanto urgenti, a cominciare dalla chiusura del bilancio.
“Non è mai successo nella storia del paese di ritrovarsi a fine anno senza legge di bilancio e legge finanziaria. Eppure il bilancio 2022 non è ancora stato presentato” sottolinea Ksiksi. “I negoziati con il FMI sono stati interrotti in mancanza di un governo e di un parlamento. Vi è un buco vertiginoso nel bilancio. Le riserve valutarie necessarie all’importazione di beni di prima necessità – grano, carburante, medicinali – sono prossime all’esaurimento. Il rating della Tunisia è stato declassato da Moody’s a Caa1. Il governo ha faticato a pagare i salari della pubblica amministrazione.” Adesso, per venire incontro alle richieste del FMI, si parla di tagli ai salari dei dipendenti statali. “Nessun Tunisino accetterà mai che il suo salario venga decurtato. Non lo può accettare l’UGTT.”
In questi dieci anni partiti e governi sono stati fortemente criticati da esponenti dell’intellighentzia, dai media, dalla società civile, dai giovani e dalle sinistre che hanno dato un massiccio sostegno elettorale a Kais Saied. Le lamentele non riguardavano soltanto l’irrisolta questione sociale. Anche sul piano delle libertà civili, in particolare in materia di libertà di espressione e informazione, c’era insoddisfazione. “Certo, molti giovani hanno creduto in Kais Saied ma oggi sono disincantati. Proprio in questi giorni il sindacato nazionale dei giornalisti ha fatto un comunicato in cui sostiene che l’accesso all’informazione è diventato impossibile. La situazione è assurda: giorni fa il presidente della Repubblica ha organizzato una conferenza stampa congiunta con il rappresentante dell’Autorità palestinese in visita in Tunisia senza invitare i giornalisti! In un’altra occasione la stampa è stata cortesemente invitata a non fare domande …”
Anche i movimenti delle donne sono stati spesso critici in questi dieci anni, soprattutto nei confronti del partito di maggioranza di ispirazione islamica sospettato, sin dalle prime elezioni che gli hanno dato una schiacciante maggioranza, di voler reprimere le libertà femminili in nome di una concezione patriarcale dei rapporti di genere giustficata con la religione. Adesso che la Tunisia ha la prima donna capo di governo del mondo arabo, cosa ne pensano? “Chiamare la signora Najla Bouden capo di governo è l’ennesima falsificazione. Anzi, una menzogna bella e buona. Leggete bene il decreto 117 del 22 settembre! Il Prresidente della Repubblica è il capo dell’esecutivo – oltre che del legislativo e del giudiziario. Lei è la sua assistente, l’esecutrice dei suoi ordini, non ha il potere di nominare ministri né quello di definire le politiche. E’ stata una nomina fatta per intimidire il movimento delle donne che non osano criticare un tale onore accordato a una donna. Ma nominando una donna senza autonomia e senza competenze Kais Saied di fatto ha danneggiato l’immagine delle donne e le loro rivendicazioni.”
Infine c’è il vissuto terra a terra delle famiglie. Una delle prime promesse di Kais Saied dopo il 25 luglio è stata quell di far scendere i prezzi. Dopo che il presidente ha esortato le imprese a diminuire i propri margini di profitto per amore del popolo, e che esse hanno cortesemente fatto mostra di acconsentire trasformando per alcuni giorni, le abituali “offerte speciali” in “riduzioni presidenziali” della faccenda non si è più parlato. Samia, che il 25 luglio ha riempito la sua pagina facebook di cuoricini all’indirizzo dei militari e del presidente, oggi alla domanda se i prezzi sono abbassati risponde: “No! Macchè, per niente. Vado al supermercato con venti dinari e riesco a comprare qualche yogurt e poc’altro.” Si è parlato invece insistentemente, in questi giorni, dell’aumento del prezzo del pane, poi smentito. Resta il fatto che tale misura si iscriverebbe nell’abolizione dei prodotti sovvenzionati, misura ventilata da anni che nessuno osa mettere in atto, con la memoria mai sopita della “rivolta del pane” del 1983.
Come tutte le voci dell’opposizione organizzata Jamila Ksikis pensa che Kais Saied non potrà durare a lungo. Giova ricordare che all’indomani del 25 luglio lo pensavano tutti. Sono passati cinque mesi e il presidente della repubblica prosegue imperturbabile nella sua opera sistematica di smantellamento della democrazia, con decreti e discorsi che i cittadini arrabbiati e gli intellettuali supponenti, nonché la società civile in passato così suscettibile, dovrebbero percepire alternativamente come uno schiaffo e come una presa in giro. Invece, a ben leggere i comunicati di partiti, sindacati, associazioni, tutti, malgrado le critiche e le proteste, fanno a gara a dichiararsi “a disposizione” del presidente per fornirgli indicazioni, suggerimenti, roadmap, per aprire “dialoghi nazionali” purché li chiami a palazzo e li associ in qualche modo al potere. Al contempo, a livello internazionale, la Tunisia ha oggi una schiera di nuovi e danarosi amici, legati al suo presidente: Egitto, Emirati, Arabia saudita, per non parlare del ritorno di fiamma con la Francia.
Dal canto suo il resto dell’Unione Europea, “la cui unica ossessione è l’immigrazione clandestina” come ricorda ancora Jamila Ksiksi, al di là di qualche sommesso appello ad un rapido ritorno alla democrazia non ha intenzione di andare, soprattutto se Kais Saied accetta di fare del paese la buffer zone tra l’Europa e l’Africa subsahariana.
Ma soprattutto, la società tunisina non ha fatto in tempo a sviluppare dei reali anticorpi all’autoritarismo, in grado di proteggere la sua giovane democrazia tanto dagli attacchi esterni quanto da quelli interni. Anni di protettorato razzista, seguiti dapprima da un dispotismo illuminato e poi da un patrimonialismo mafioso, hanno distrutto le basi culturali e istituzionali della solidarietà sociale e dell’identità nazionale. Tutto lascia prevedere che la strada sarà ancora lunga.