Come è bello il calcio ai tempi del Var! L’occhio della telecamera annulla la fallacità dello sguardo umano, la televisione vince definitivamente sullo stadio e giustizia è fatta. Chi merita vince, gli altri perdono. La meritocrazia finalmente suggellata dalla tecnologia.
Intanto i tempi di gioco si fanno sempre più lenti, incerti, in perenne attesa di giudizio. Ad ogni gol spettatori, telespettatori e spettabili giocatori continuano a gioire e scoraggiarsi lasciando però un occhio sempre incollato sull’arbitro. Perché il Var, soprattutto quello italiano, non si ferma un attimo. Come un abile detective, indaga sul crimine e sul peccato d’ogni gol, ricostruisce intere azioni e se trova un solo starnuto fuori posto, inflessibile ne sancisce l’annullamento. Così fioccano i gol annullati per millimetri di fuorigioco, i rigori dati per una semplice carezza… Il volto arbitrale è ormai l’indiscusso protagonista della rappresentazione calcistica. È più inquadrato del miglior fuoriclasse in circolazione. Ne conosciamo a memoria tic e gestualità: non perdiamo mai di vista la sua mano mentre si porta all’orecchio e sfiora l’auricolare, continuiamo a scrutare il suo sguardo per capire se è dubbioso, pensante o semplicemente vuoto.
Ecco il paradosso: la tecnologia non riduce il ruolo decisionale dell’arbitro, lo amplifica. È così che l’arbitro è stato duplicato se non triplicato. Ci sono quello in campo, quello a bordo campo e quello in sala. Ma in Italia non bastano. Perché i telespettatori vogliono sicurezze e dibattito in egual misura. Così si è aggiunta la figura del critico arbitrale, una voce che sbuca in diretta, con regolamento alla mano, per sancire la verità televisiva del senso comune. Intorno a uno sport che dovrebbe essere emblema d’immediatezza, si è costituito un vero e proprio tribunale in tempo reale. Si dirà: bene, così almeno si spengono le polemiche e le recriminazioni. Peccato che queste aumentino, proliferino! Chi subisce un torto lo percepisce raddoppiato, i giorni di discussione aumentano e una squadra di vertice rischia anche quest’anno di vincere il campionato grazie ad alcuni errori madornali. Le squadre forti avvantaggiate, quelle piccole penalizzate. Tutto cambia, tutto resta.
Ma a noi italiani piace così! Non tanto la tecnologia, quella la assumiamo passivamente come chiunque altro su questa terra. No, a noi attrae la giustizia come un morbo. Il nostro rapporto morboso con la legge è un elemento essenziale della nostra antropologia. Passeremmo giorni e giorni a discutere di una decisione arbitrale così come di un processo, di un reato politico oppure di una semplice multa. Soltanto in questo modo riusciamo a scuoterci dal sonno critico. Daremmo l’anima al diavolo per avere ragione, per umiliare il torto al bar, in casa, a scuola, in ufficio e su su fino ad arrivare a un vero e proprio tribunale. Odiamo e adoriamo arbitri, vigili e giudici perché consentono di alimentare rancore e sete di giustizia. Nella terra della corruzione e del sotterfugio, diventati vera riscrittura artistica della realtà, com’è possibile che si passi il tempo ad invocare la giustizia?
Forse si tratta di una contraddizione, apparentata ad antichi vizi come clientelismo, familismo o populismo, ma soprattutto figlia di un connaturato desiderio di fondo: fottere la giustizia. Eh sì perché il vero sogno di ogni italiano è fottere la giustizia attraverso la legge (o viceversa). Ottenere il marchio, il protocollo della ragione, magari provando la leggera e imprevedibile ebbrezza di non essere nel giusto. L’Italia è il paese di Don Raffaé, non dimentichiamolo, degli avvocati, dei cinquanta concorsi, novanta domande e duecento ricorsi. Se hai la possibilità di avere un vantaggio privato o di fare carriera nel pubblico e trovi il cavillo giusto, che fai? Interpelli la Legge, assumi un affidabile re del cavillo e sogni il trionfo personale.
Forse ogni cosa deriva da un semplice fastidio: l’avversione contro il principio di terzietà. Che sia proprio un’imparzialità pallida e scialba a decidere la ragione o il torto, che sono invece una questione d’onore e di passione. E così non resta che costruire altari di tribunali intorno alle figure terze, per osservarle, giudicarle e far ritornare ogni cosa a un sano principio di soggettività. Si potrà andare avanti quanto si vuole con la tecnologia; ad ogni alienazione di umanità si guadagnerà in precisione, forse in oggettività ma mai si arriverà a colmare, a saziare l’antico senso di personale giustizia. E se arrivassimo al punto di eleggere una macchina a giudice delle nostre azioni? Se concepissimo un algoritmo capace di sintetizzare la verità del torto e della ragione?
Nessun problema, in Italia si potrà sempre fare ricorso contro chi l’ha programmata.