Ramadan il Generoso si è appena chiuso. E più passano gli anni, e più mi sembra non un tempo, non un periodo, ma uno spazio.
Il mio Ramadan è uno spazio.
Uno spazio di maggiore introspezione, riflessione. Sia individuale che come comunità.
Quest’anno, la chiusura del Sultano dei mesi mi ha rimandata a ricercare un libro che non prendevo in mano da anni, Filastin. L’arte di Resistenza del vignettista Palestinese Naji Al-Alì.
E non a un caso, mi dico, vista l’escalation di violenza demoniaca sul Popolo Palestinese da parte degli occupanti.
Naji Al-Alì è considerato uno dei più grandi vignettisti del ‘900. Il suo lavoro è stato un attento reportage dai campi profughi, oltre che un diario di guerra e un commento politico all’attualità del suo tempo, i 25 anni di politica nel Medio Oriente, un “testamento”, come lui stesso lo ha definito, attraverso lo strumento di cui disponeva: una matita.
Il suo disegno e la sua capacità di creare simboli grafici hanno comunicato oltre ogni barriera linguistica, geografica, anagrafica e culturale.
Naji Al-Alì è un Palestinese del ’36. Sono gli anni in cui il Popolo Palestinese inizia a essere sfollato, deportato; sono gli anni del progetto di sgombro per portare a compimento l’immigrazione ebraica, gli insediamenti che prepararono la Proclamazione dello Stato di Israele del ’48.
A questo tempo, Naji Al-Alì ha 11 anni, ha visto radere al suolo il suo villaggio e da cittadino è diventato un deportato. Uno degli oltre 750.000 palestinesi vittime della Nakba, la pulizia etnica (ai quali nel ‘67 se ne aggiungeranno altri 250.000 in seguito alla guerra dei 6 giorni) sgombrati nei 59 campi allestiti in Libano e negli altri Paesi limitrofi, dall’UNRWA – Agenzia delle Nazioni Unite – (!).
Tutta la sua vita è stata quella di un profugo, di chi non riuscirà mai più a fare ritorno in Palestina, a casa, prima del suo assassinio compiuto a Londra nell’87.
Naji Al-Alì capisce già molto giovane che non è nel suo temperamento restarsene inerme e muto in disparte. Nei campi di Beirut e nelle carceri ha subito, e ha visto subire, spoliazione, umiliazione, arroganza, prepotenza e prigionia, sono condizioni indimenticabili. E sono state il suo buon motivo alla resistenza, di contestazione ai governi , sia Occidentali che Arabi, alla Nato e agli USA.
La gente deportata con la sua famiglia, quella che vede intorno a sé nei campi, è per lo più contadina, che quando ha perso la propria Terra, ha sentito di perdere ogni dignità. La Madre Terra, la Natura, ricorre perennemente nel suo racconto; è struggente la vignetta del fedayn che trova un fiore sotto la neve e lo protegge con il suo cappotto logoro.
Nei campi non c’è né borghesia, né commercianti, ci sono i più indifesi e senza voce che hanno bisogno che qualcuno prenda su di sé la loro realtà e la faccia conoscere. “Il vero combattente conquista i suoi diritti sempre insieme agli altri, non a scapito degli altri”. Questa evidenza marchia a fuoco la riflessione del ragazzo, tanto da diventare lo scenario di tutto il suo lavoro.
Dapprima crede di poter fare politica, ma non è la sua strada. E si fa presto persuaso che possiede uno strumento molto più veloce, penetrante e efficace. Le sue caricature e vignette appaiono dapprima sui muri dei campi in cui è stato rinchiuso con la famiglia, poi sui muri delle prigioni in cui verrà sovente sbattuto per aperta resistenza ai regimi. Solo più tardi, grazie allo scrittore, politico e editore Ghassan Kanafani , inizierà a pubblicare sui giornali e riviste egiziane, e poi di tutto il mondo.
“Tutte le volte che venivo arrestato, ero attento ad avere con me la mia matita anche in carcere.”
La sua matita è la sua “arma d’amore” (ctz. Vauro Senesi) e da qui nasce Handala, la sua icona più nota e più amata.
Handala è un bambino, viene dal campo profughi di Ain al Hilwa. Ci dà le spalle. Sempre. Non ci permette di vedere il suo viso. Mai. Prende il nome da un’erba selvatica mediorientale dai frutti amarissimi, e si sente tutta la sua amarezza quando, sempre di spalle, ci dice: “Giuro che rimarrò fedele alla mia causa e al mio Popolo.”
Il bambino Handale è il suo alter ego, “io stesso ho ancora la sua età”, confiderà da adulto nelle interviste. Ma anche dei popoli di tutto il mondo oppressi e violati, dal Vietnam all’Africa.
Handala “non ha permesso al mio spirito di soccombere ogniqualvolta sentivo un po’ di pigrizia, o stavo per dimenticare i miei doveri.” E’ “la bussola che mi indica sempre la Palestina, non solo in senso geografico, ma anche umano e simbolico, cioè la causa giusta ovunque sia nel mondo: in Egitto in Vietnam, in Sudafrica.” Ovunque ci sia bisogno di ripulire la Verità dalle menzogne della propaganda e dalle ipocrisie degli interessi economici e politici.
L’arte di Naji Al-Alì è un’arte che si guarda a fatica, che si assimila e metabolizza duramente, i suoi segni sono chiari, non lasciano nulla al dubbio. Non vuole divertirti, non vuole nemmeno compiacersi di averti dato gli strumenti per vedere la Verità. No! La sua arte è resistenza per la sopravvivenza, non c’è fiato per le lusinghe dell’ego quando il tuo mondo è tutto sotto sterminio.
Nessuno si può sentire innocente, o non chiamato in causa dalla sua matita. Ti scava dentro e punta dritto al tuo senso di responsabilità. E di giustizia. Potrai nascere tra 1000 anni, potrai non avere nulla a che fare con il nostro tempo di guerre e di soprusi, eppure, guardando queste vignette non ti sentirai innocente.
Al tempo stesso, però, non è per niente immediato cogliere il significato delle vignette di Naji Al-Alì, o conosci bene la storia, tanto da capirne a pieno e il senso, oppure parti proprio dalle forti emozioni che queste ti scavano dentro per andare a ricercare i fatti riferiti al suo commento, alla sua critica feroce, al suo incitamento.
Devi guardarle, guardale e riguardarle, quando inizi a vedere i dettagli, allora il senso si apre – come con alcune calligrafie complesse, non ti accorgi subito della tridimensionalità dell’arabo coranico -.
Quanto dettagliata può essere una matita che racconta?! Dopo aver visto i suoi disegni non puoi più non sapere come ti lascia la violenza dell’ingiustizia, dell’abuso, dell’umiliazione e della privazione.
“Concepire una serie di simboli che, se presentati con continuità avrebbero potuto dar vita a un linguaggio comune tra me e il lettore.”
Questi simboli hanno una valenza espressiva potente, sono per lo più oggetti con una connotazione simbolica universale, come le chiavi: i profughi Palestinesi hanno sempre conservato le chiavi delle loro case in Palestina. Forse non ci torneranno mai, forse quelle case sono state spianate, ma le chiavi sono qualcosa. Sono la speranza.
Le chiavi sono la fotografia di una realtà più forte e più reale, proiettata intatta che nessuno potrà toccare mai.
La posizione di Naji Al-Alì è sempre chiara, lucida, cristallina di fronte allo scenario politico dello sgombro, alle responsabilità dei regimi arabi e dell’Occidente di aver abbandonato il Popolo Palestinese, delle Agenzie Governative internazionali. Non ha mai censurato le sue forti critiche: “I regimi vogliono che gli artisti, gli intellettuali e i giornalisti siano il loro strumento – un chiodo – e così offrono loro lavoro, li sostengono nel successo, ma per me l’artista ha il dovere di rimanere sempre fedele alla propria Gente”.
Ha parlato chiaramente delle politiche dei regimi arabi colpevoli di aver “complottato per ripulire il sud del Libano annientando la forza militare Palestinese con le false risoluzioni di pace” ; ha definito la guerra in Libano “creata e inventata ad arte”; ha diffuso commenti e segni grafici instancabilmente per due decenni sulla risoluzione 242 del consiglio di sicurezza dell’ONU del 67 che ha “cancellato di fatto il territorio storico di Palestina”. Ha accusato apertamente i regimi dei Paesi Arabi di aver lasciata da sola la resistenza dei campi di lamiera finché non ha più avuto la forza per poter contrastare da sola con alcun mezzo la macchina militare israeliana e il continuo bombardamento da terra, cielo e mare. “I regimi dei Paesi Arabi si erano neutralizzati da soli dopo gli accordi di Camp David” (avviati da Kissinger, ma firmati solo nel’78, l’anno successivo alla fine del suo mandato come Segretario USA).
E’ così che Khaled Naji Al-Alì rimane vittima di un attento a Londra il 22 luglio del 1987. L’assassino gli ha sparato alla testa con il silenziatore davanti alla sede del quotidiano kuwaitiano al Qabas International, Resta in coma per 5 settimane e muore il 29 agosto.
La tragedia scomodò le ire perfino della signora Margaret Thatcher, che non potendo ottenere da Scotland Yard l’accusa del sospettato, collegato sia all’OLP che al Mossad, si risolse chiudendo la sede londinese del Mossad a Palace Green, Kensington.
Il suo lascito all’Umanità consiste di migliaia di vignette, Filastin, realizzato con il Comitato di Solidarietà con il Popolo Palestinese di Torino, ne raccoglie 175, originali e restaurate, oltre all’intervista rilasciata all’intellettuale e scrittrice egiziana Radwa Ashour nel 1984 e pubblicata l’anno successivo.
Questo Artista, pubblicato e apprezzato in tutto il mondo, è ancora troppo poco conosciuto in Italia.
Tutt’oggi, nelle gallerie di Ramallah e sui muri dei campi profughi di Betlemme, Gaza, Beirut, Al-Azzeh l’Intifada continua a ricordare Handala e gli anniversari dell’assassinio di Khaled Naji Al-Ali’.
Handala continua a dare le spalle all’accidia occidentale. Forse un giorno si girerà verso di noi, forse quando tornerà a casa, e allora Naji Al-Ali’ aveva promesso che avrebbe iniziato a disegnare a colori.