Secondo il nuovo libro di Peter Oborne, la recente analisi occidentale dell’Islam è stata inficiata da errori intellettuali e morali.
Peter Oborne è cresciuto, come dice lui stesso, nell’establishment britannico, in una fiorente zona delle Home Counties, suo padre era un ufficiale dell’esercito, suo nonno un eroe di guerra. Formatosi privatamente in una delle migliori scuole e poi al Christ’s College di Cambridge, gli inizi della sua carriera di scrittore hanno avuto un prevedibile percorso come corrispondente politico per alcuni colossi dell’establishment conservatore, come il Daily Mail, il Telegraph e Spectator.
Ad un certo punto, però, ha cominciato a rendersi conto che il mondo non era proprio come gli era stato insegnato e quindi si è via via allontanato da questo ambiente.
Lo capisco.
Sebbene non provenga dallo stesso ambiente di Oborne, anch’io sono nato in una famiglia della classe media nelle Home Counties e ho ricevuto un’istruzione privata. La mia via di Damasco (termine probabilmente appropriato visto l’argomento che stiamo per trattare) è arrivata ancora prima della sua.
Pur nell’isolamento del mio collegio cattolico, potendo fare affidamento solo sul Times e sul Daily Telegraph per riuscire ad ottenere informazioni sul mondo esterno, sono riuscito a rendermi conto che c’era qualcosa di sbagliato nella versione ufficiale della guerra in Vietnam e da quel momento in poi la mia prospettiva è cambiata.
La via di Damasco di Oborne è arrivata più tardi. Uomo profondamente etico, con un enorme senso del bene e del male e un’intelligenza investigativa, si è sentito sempre più a disagio per la demonizzazione dei musulmani che ha fatto seguito all’attacco terroristico delle torri gemelle di New York, nel 2001.
Nel 2015 si è dimesso dal suo confortevole incarico di caporedattore politico al Daily Telegraph e da allora ha intrapreso la sua strada come indipendente.
Il risultato è questo bellissimo libro che documenta le relazioni tra Islam e Occidente.
Un libro bellissimo
I primi capitoli raccontano la storia delle relazioni tra i Musulmani e le tre grandi potenze imperiali: Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna. Fino alla metà del XX secolo, i contatti tra gli Stati Uniti e il mondo islamico si erano limitati alla lotta contro i pirati barbareschi e alla repressione delle tribù Moro nelle Filippine.
I primi Musulmani giunsero negli Stati Uniti 400 anni fa come schiavi e, fino agli attentati dell’11 settembre, la loro influenza sulla politica e sulla cultura statunitense è stata del tutto marginale.
L’America ha iniziato ad occuparsi del mondo arabo negli anni Trenta quando, in seguito alla scoperta di vaste riserve di petrolio, aveva sostenuto le tirannie arabe e lo scià in Iran. Ma il ruolo della CIA nel rovesciamento del primo governo eletto iraniano e decenni di sostegno incondizionato a Israele, misero gli USA irrimediabilmente in rotta di collisione con gran parte del mondo arabo.
L’interazione della Gran Bretagna e della Francia col mondo islamico risaliva invece a quando i loro rispettivi imperi erano nel periodo più fiorente. Per di più nel Regno Unito, durante l’era post-coloniale, vi è stata una massiccia migrazione dei Musulmani che – in linea di massima – hanno sempre vissuto in relativa armonia con la popolazione autoctona.
I francesi, invece, hanno dovuto abbandonare e fuggire dal loro impero.
La feroce guerra civile algerina ha provocato una enorme migrazione verso la madrepatria degli ex colonialisti, le cui idee di estrema destra, fin da allora, hanno avvelenato le basi della politica francese.
Anche i nativi algerini, che avevano servito il regime coloniale, fuggirono in Francia numerosi, provocando la crescita di un vasto sottoproletariato di Musulmani impoveriti, rancorosi e risentiti. Quindi, gli attacchi terroristici dell’11 settembre sono stati la goccia che ha fatto traboccare il vaso.
Il nuovo nemico dell’Occidente
L’influente politologo americano Samuel Huntington aveva già previsto da tempo che il vuoto lasciato dal crollo dell’URSS sarebbe stato sostituito da uno scontro di civiltà, in particolare tra Islam e Occidente.
L’ascesa di Al Qaeda e gli attentati a New York e al Pentagono sembravano essere la realizzazione pratica di quella profezia.
Oborne sostiene invece che non è affatto così. “Nessuno dei cinquanta Paesi a maggioranza musulmana del mondo ha mai dichiarato guerra agli Stati Uniti. Né abbiamo assistito alla formazione di una coalizione islamica”.
E prosegue: “Molti analisti autorevoli nel mondo arabo ritengono gli USA responsabili della situazione che ha permesso a gruppi terroristici come Al Qaeda di prosperare – e, fin dall’inizio, allo Stato Islamico di esistere – invadendo, occupando l’Iraq e poi distruggendone le istituzioni dello stato”. Huntington è stato un esperto di politica molto importante. La sua tesi secondo cui il mondo civilizzato stava combattendo contro l’Islam radicale ha fornito al complesso militare-industriale occidentale l’idea di un nemico globale, organico e internazionale. Questa sua idea ha contribuito a provocare guerre e a creare odio negli Stati Uniti e tra i suoi alleati in tutto il mondo”.
Uno dei capitoli più interessanti del libro racconta come, all’indomani degli attentati dell’11 settembre, i soliti sospettabili – la destra cristiana, i think tank neo-conservatori e i guerrafondai disoccupati della Guerra Fredda – si siano rapidamente impadroniti della narrazione sull’Islam e sull’estremismo, spesso con conseguenze tragiche, sia negli USA che nel Regno Unito.
Un piccolo esempio: Tahir Alam, cittadino britannico di origine pakistana fortemente motivato che, in qualità di direttore amministrativo, aveva svolto un ruolo guida nel risollevare le sorti di una scuola secondaria di Birmingham con gravi problemi.
È stato denunciato e screditato, sulla base di accuse inesatte e in forma anonima, a causa della “Operation Trojan Horse”, un complotto inesistente secondo il quale alcuni estremisti musulmani avrebbero cercato di islamizzare le scuole locali. Particolarmente deprimente è stata la facilità con la quale tutte le agenzie governative, i politici e i media ci hanno subito creduto.
Secondo Oborne, l’Occidente deve ripensare le sue relazioni con l’Islam. Le recenti analisi occidentali sono state inficiate da errori intellettuali e morali. “L’errore intellettuale è stato quello di pensare all’Islam in termini di Guerra Fredda…”.
L’errore morale è stato quello di supporre che l’Occidente fosse impegnato in un conflitto esistenziale contro l’Islam (o l’islamismo), così come lo era stato contro l’Unione Sovietica
E continua: “La strategia era sbagliata di per sé. Inoltre, ha conferito legittimità a movimenti come al-Qaeda e allo Stato Islamico. Questi gruppi terroristici hanno sempre ritenuto che il sostegno occidentale a favore della democrazia fosse una messinscena. Dopo l’11 settembre, la politica occidentale ha confermato l’analisi di al-Qaeda. Entrambe le parti, infatti, hanno in comune il disprezzo per la democrazia, per i diritti umani, per lo stato di diritto e per i processi equi. Entrambe, a loro modo, accettano la dottrina marxista secondo cui il fine giustifica i mezzi, fino all’utilizzo di metodi barbari come la tortura e le uccisioni di civili”.
Quando si parla di democrazia, i governi occidentali parlano con la lingua biforcuta. Nonostante i loro leader dichiarino ripetutamente il loro amore per le libere elezioni e per i diritti umani, troppo spesso – come durante la Guerra Fredda – si sono alleati con i tiranni.
L’Egitto è solo l’esempio più recente.
Non appena i Fratelli Musulmani hanno conquistato il potere nel 2012, in quella che è la cosa più simile ad un’elezione libera che l’Egitto abbia mai conosciuto, i campanelli d’allarme hanno cominciato a suonare. E quando, immancabilmente, i militari egiziani hanno rovesciato il governo eletto, imprigionato il presidente e iniziato ad arrestare, torturare e uccidere i suoi sostenitori, l’Occidente è rimasto in silenzio.
Invece il dittatore militare, generale Abdel Fattah el-Sisi, è stato ricevuto con onore in quasi tutte le capitali occidentali. Il flusso delle armi e degli aiuti è continuato. Come immaginiamo che l’egiziano medio possa reagire a tutto questo mentre ascolta i leader occidentali blaterare di democrazia e libertà?
Un grande servizio
È un libro notevole, scrupolosamente documentato e scritto con grande chiarezza.
Oborne sostiene che non vi sia alcuna ragione intrinseca per la quale tre delle grandi religioni del mondo – ebraismo, cristianesimo e islam – debbano essere in guerra tra loro. Tutte adorano lo stesso Dio del profeta dell’Antico Testamento, Abramo.
Tutte e tre le religioni sono nate in Medio Oriente e venerano molti degli stessi luoghi sacri storici. Da qualche parte bisogna pur cominciare, ma vista la storia recente, non sarà facile far rientrare il genio dentro la lampada.
Se avessi qualcosa da criticare a proposito dell’analisi che fa l’autore, è che induce a ritenere che la colpa dell’attuale triste situazione sia da attribuire quasi esclusivamente all’Occidente. Certo, in gran parte è così, ma come si possono spiegare il feroce ciclo di violenza settaria o i massacri a catena nel nord della Nigeria? Tutte le grandi religioni contengono il virus dell’estremismo.
Non mi convince del tutto l’idea che la colpa sia principalmente o interamente dell’Occidente, anche se in gran parte è vero, perché ci sono aspetti del mondo islamico che devono essere messi in discussione, il trattamento che le donne ricevono in alcuni paesi musulmani ad esempio.
Ritengo normale anche chiedersi come è possibile che coloro che hanno messo le bombe nella metropolitana di Londra o che hanno ucciso il deputato David Amess fossero cittadini britannici, nati e cresciuti in quel paese, avendo avuto accesso a tutti i benefici che la vita in una prospera democrazia liberale può concedere.
Conoscevo una volta un famoso giornalista che aveva raccontato quasi tutte le guerre e i fronti di battaglia del dopoguerra. “Ogni giorno”, disse, “mi alzo e ringrazio Dio di non avermi mai fatto diventare un esperto di Medio Oriente”.
In linea di massima, questo è anche il mio pensiero. Oborne ha reso un grande servizio percorrendo una via nella quale altri giornalisti e commentatori mainstream temono – o forse non si preoccupano – di camminare.