Il primo Hajj post-pandemia ha visto la trasformazione di questo importante rituale religioso in uno strumento del progetto nazionalista saudita.
Mentre si conclude il periodo sacro del Hajj per i quasi due miliardi di musulmani del mondo e con esso termina anche l’anno lunare islamico del 1443, è tempo di fare un bilancio del primo Hajj internazionale post-pandemia.
Il disastro delle prenotazioni per l’Hajj di quest’anno è l’ennesima dimostrazione di tutto ciò che non funziona nel moderno Stato saudita e nell’ordine internazionale che ne garantisce la legittimità politica ed economica.
Il pellegrinaggio annuale del Hajj rappresenta uno dei Cinque Pilastri dell’Islam, che richiede ai musulmani finanziariamente e fisicamente capaci di compiere il viaggio alla Mecca almeno una volta nella vita, in ricordo dei sacrifici sopportati dal profeta Abramo e dalla sua famiglia.
Quest’anno, però, si sono verificati cambiamenti radicali nel modo in cui i servizi del Hajj sono stati resi disponibili ai pellegrini internazionali, e che segnala il desiderio dello Stato saudita di ottenere un controllo globale sul processo annuale del Hajj.
In questo modo, l’Arabia Saudita si comporta come se avesse un diritto di proprietà sul quinto pilastro dell’Islam.
Trasformare l’Hajj in uno strumento
Quest’anno, a meno di quattro settimane dall’inizio del Hajj, il ministero saudita del Hajj ha stravolto il sistema tradizionale che prevedeva l’utilizzo di agenzie di viaggio estere per l’organizzazione dei pacchetti Hajj ,spesso accuratamente personalizzati con guide turistiche esperte. In nome della repressione delle frodi, il governo saudita ha istituito un sistema centralizzato chiamato “Motawif”.
Il lavoro di questa agenzia governativa è stato a sua volta esternalizzato ad un’agenzia di viaggi di proprietà indiana, con scarsa esperienza nell’organizzazione del Hajj. Tuttavia, come ha scoperto Middle East Eye, vanta legami con il primo ministro indiano, il cui partito al governo, il BJP, è caratterizzato da una feroce e spesso letale ostilità nei confronti dei musulmani indiani.
Si può ipotizzare che quest’anno le impronte dell’ambizioso principe ereditario Mohammed bin Salman (MbS) siano visibili nel processo del Hajj.
Data la reputazione del principe, che cerca di ottenere un controllo completo in tutti i settori dello Stato, sembra perfettamente plausibile che egli voglia accentrare il controllo sulle vendite più importanti per il moderno Stato saudita, e cerchi di orientare in altri luoghi il progetto per i suoi scopi personali.
Ma una conseguenza ironica dei tentativi del moderno Stato saudita di controllare l’Hajj col pugno di ferro è che sta trasformando questo rituale religioso fondamentale in uno strumento del progetto nazionalista saudita.
Nel processo, i sauditi stanno effettivamente rivendicando la completa proprietà del Hajj, invece che riconoscere il loro ruolo di custodi delle due Sacre Moschee, che appartengono alla comunità musulmana globale (ummah) nel suo complesso, e non ad uno Stato costituito di recente.
Vale la pena ricordare che l’Arabia Saudita non esisteva nemmeno 100 anni fa (è stata fondata nel 1932), mentre l’Islam e la ummah islamica sono idee che possono rivendicare la fedeltà dei musulmani da quasi 1.500 anni.
I sauditi stanno quindi forzando l’ideologia moderna del nazionalismo su un pilastro fondamentale della fede islamica e rivendicano la proprietà di qualcosa su cui non hanno alcun diritto, qualcosa che trascende le preoccupazioni dei musulmani di ogni singolo Stato moderno.
Necessità di una riforma
L’Hajj non appartiene a nessuno Stato o individuo, nonostante il comportamento delle moderne autorità saudite. L’Hajj è piuttosto una responsabilità comune di tutti i musulmani del mondo e dovrebbe essere amministrato in modo da soddisfare i desideri della maggioranza di loro.
L’Hajj dovrebbe essere gestito democraticamente attraverso una consultazione dei musulmani di tutto il mondo.
I rappresentanti eletti dei musulmani di tutti i Paesi del mondo dovrebbero avere i mezzi per trasmettere i desideri delle loro popolazioni al resto della ummah. In questo senso, l’Hajj è uno dei motivi per cui i musulmani dovrebbero cercare di realizzare forme di governo rappresentative e consultive.
Le attuali patologie dell’autoritarismo nel mondo musulmano – anche in alcune presunte democrazie – illustrano la profondità delle riforme necessarie per consentire agli Stati musulmani di essere adeguatamente rappresentativi degli interessi delle loro popolazioni.
È improbabile che, nel breve termine, cambi qualcosa riguardo al Hajj. L’Arabia Saudita è un’unità riconosciuta nell’attuale ordine internazionale costruito sul principio dello Stato nazionale sovrano. Ciò indipendentemente dal fatto che uno Stato abbia un governo rappresentativo o sia un’autocrazia assolutista come l’Arabia Saudita.
Infatti, la dipendenza del mondo dagli idrocarburi garantisce che Stati come l’Arabia Saudita continuino ad arricchirsi e a rafforzarsi nell’attuale ordine globale.
Con la probabilità che MbS diventi il prossimo re, sembra che l’unica opzione a disposizione delle persone preoccupate per la monopolizzazione e il profitto dello Stato saudita sul Hajj sia quella di esprimere il proprio malcontento e proporre alternative fantasiose all’attuale status quo.
Ripensare l’Hajj
Questo, ovviamente, è già stato suggerito dal principale studioso del Hajj, Robert Bianchi, che da anni sostiene la necessità di ripensare l’Hajj. Con questo spirito, proporrei di reintrodurre l’idea, già sperimentata ma poi abbandonata, di affidare la gestione del Hajj ad una coalizione internazionale di Stati musulmani.
Come nota Bianchi, un tempo questo ruolo era svolto dall‘Organizzazione della Cooperazione Islamica (OIC) in collaborazione con l’Arabia Saudita, nelle cui terre si trovano i Luoghi Sacri.
Un’organizzazione di questo tipo deve possedere meccanismi che limitino la pressione esercitata da Stati potenti come l’Arabia Saudita. Ad esempio, un Paese come l’Arabia Saudita non dovrebbe essere in grado di mettere in minoranza un Paese con una popolazione otto volte superiore alla sua, come è l’Indonesia.
In linea di principio, l’Hajj non dovrebbe essere lasciato ai capricci di uno Stato autocratico. Né tantomeno dovrebbe essere lasciato nelle mani di una singola democrazia. Piuttosto, l’Hajj dovrebbe essere gestito facendo riferimento ai musulmani di ogni parte del mondo.
Il ministero saudita per l’Hajj non dovrebbe esistere se non come tramite per veicolare i desideri della ummah musulmana globale su come dovrebbe essere condotto l’Hajj. L’Arabia Saudita non è proprietaria del Hajj, ma gode dello straordinario privilegio di servire gli ospiti di Dio che visitano La Mecca dai quattro angoli del mondo.
Invece di un singolo ministero del regno che decide ogni cosa su come condurre l’Hajj, il processo del Hajj dovrebbe essere sottoposto a consultazione a livello globale.
Un tale progetto inizierebbe a creare relazioni istituzionali laterali tra le grandi popolazioni musulmane di tutto il mondo in un modo che potrebbe aspirare a rivaleggiare con l’egemonia che lo Stato-nazione ha sull’immaginario islamico moderno. Ma darebbe anche alla comunità globale dei Musulmani una maggiore voce in capitolo nella conduzione di uno dei rituali più importanti della loro fede.
Unità comunitaria
Secondo molti osservatori, queste aspirazioni potrebbero non sembrare realistiche. Ma questo non importa se un numero sufficiente di persone può iniziare a condividere questa aspirazione.
L’Hajj è una spettacolare espressione annuale dell’impegno di milioni di musulmani verso la manifestazione ultima dell’unità e dell’unicità di Dio.
I Musulmani possono trovare nell’idea del Hajj un percorso verso un senso globale di unità comunitaria. Questa unità ummatica consiste, in ultima analisi, nel pensare al di là delle nostre nozioni, sempre più obsolete, di nazionalismo e di Stato-nazione.
La questione è se i Musulmani possano o meno essere abbastanza fantasiosi da vedere al di là di questi moderni costrutti coloniali. Solo se immaginiamo collettivamente un mondo diverso sarà possibile realizzarlo.
Articolo di Usaama Al Azami pubblicato su Middle East Eye