Breve storia amara della scuola italiana

Uno spettro si aggira per l’Italia – lo spettro della scuola. Un’istituzione impermeabile ad ogni crisi sociale, scollegata dalla realtà circostante, un habitat che non si può far a meno di abitare e criticare.

Eppure procede la scuola, forse zoppica oppure saltella ma procede mentre la pedagogia di sicuro si è fermata ai primi del Novecento. Dopo c’è stata solo educazione e le sue scienze (dell’educazione), perfetta parodia della pedagogia. Senza un’idea di uomo, una visione di allievo, l’educazione, sola e spaurita, si è lasciata corteggiare dalle parole del diritto, dalla forma dell’economia e dagli scopi della politica. 

Tutti matrimoni incestuosi sotto la protezione della burocrazia, che man mano hanno lasciato gli insegnanti nelle vesti di semplici testimoni, burocrati di talento o di riproduzione, in preda alle parole educative del momento. Per capire – o quantomeno intuire – la scuola contemporanea bisogna allora risalire agli inizi del Novecento, all’apice e alla scomparsa della sua santa protettrice: la pedagogia. Una capriola dietro l’altra, seguendo lo stesso cammino dell’istituzione scolastica, sulla scia di una costante regressione. 

Si cominci allora dal presente e dalle sue parole: competenze, alternanza, interdisciplinarietà. L’agone è disegnato, nel suo perimetro circolare la scuola si agita, corre, annaspa per inseguire l’abito del tempo. Gli insegnanti compilano perenni tabelle in cui monitorare le performance dei loro allievi. Le parole sono ridotte a numeri. Una grande evoluzione senz’altro: non sono più i voti a mutare i giudizi in quantità, ma sono i vocaboli a condensare vuote misurazioni quantitative. Saper leggere, ragionare ma senza sapere, senza leggere e senza ragionare. L’importante è che non vengano ignorati i lumi dell’interdisciplinarietà. Una parola monumentale che aleggia su ogni riunione didattica. L’interdisciplinarietà consiste in una semplice sequenza: individuare un argomento, frastagliarlo in moduli per lasciare che le discipline siano libere di sdraiarsi una accanto all’altra. 

Grazie alla fatica analitica e sintetica dei loro docenti, gli alunni del duemila apprenderanno che tutto è connesso, che ogni cosa rinvia all’altra. L’universo della vita non sarà più finalmente una somma di concetti, ma un’unica meravigliosa sintesi di senso. Peccato che gli allievi, oramai avvezzi alla parcellizzazione, all’assimilazione di singole conoscenze rigidamente separate, si limiteranno ad assumere le reti di significato offerte dai loro docenti, e mai si attiveranno in autonomia per saltare dall’uno al molteplice. Seduti e stupefatti, i discenti assisteranno alla magistrale lezione in cui il complesso diventa la somma totale di semplici assoluti. 

D’altronde cosa si pretende ancora dalla scuola? Questo è il tempo della connessione e del digital divide. A scuola non bisogna apprendere la narrazione del complesso, ma fornire la semplicità della connessione. I docenti forniscono non solo i contenuti ma anche i programmi che li mettono in  relazione. Dopo bisogna soltanto eseguire. 

Meglio allora lasciarsi andare ad un’ulteriore capriola. Pochi anni indietro sulla verticale della cronologia per arrivare alla grande riforma delle tre I: informatica, inglese, impresa. Tre diverse preghiere didattiche sull’altare di un unico Principio: educare alla produttività, spianare la strada al regno della competizione globale. Le aule si riempiono di progetti per lasciar entrare il mondo esterno, i Dirigenti diventano manager e le scuole piccole aziende burocratiche, che perseguono il sogno dell’efficienza. Un sogno garantito dalla nascita dell’Invalsi. Sembra evocare un generoso ente incaricato di risarcire e amministrare disabilità di vario genere, l’Invalsi invece diventa la prova delle prove, dove poter tastare la concorrenza scolastica universale, sancendo la definitiva mutilazione dell’educazione. 

Eppure scuola e società venivano da un legame differente. Anni trascorsi in una relazione capace di partorire la cosiddetta scuola dell’inclusione, l’ultima figlia del grande ideale democratico della scuola di massa. Bisognava accogliere, non selezionare. Recuperare, includere e se resta il tempo, forse premiare. 

Dietro le quinte attendeva la società dei servizi e dei consumi, che imponeva due direttive essenziali: è necessario formare umili, fedeli impiegati e frenetici consumatori. Tutti i giovani, nessun escluso, resi indipendenti dall’alfabeto ma senza esagerare… Indipendenti al punto giusto, fino a restare dipendenti dalle logiche di mercato e dalle mode dell’essere.

Aumentavano così le persone istruite, diminuiva la qualità dell’istruzione e l’insegnante iniziò a smarrire la sua aura in mezzo alla folla, per scoprire a poco a poco precarietà, graduatorie nel sogno di sicurezze da dipendente pubblico. Tra un diritto allo studio e un diritto al ricorso, si scoprì il dovere della mediocrità.

Una condizione non così lontana dalle famose rivolte studentesche. Verso la fine degli anni Sessanta i figli contestatori impegnati ad uccidere i genitori, e con loro il limite dell’educazione, per trasformare tutto in un incubo familiare. Una lunga storia di nevrosi stese intorno ai due poli dell’indipendenza e dell’autorità. 

Ancora un salto indietro di qualche decennio e arriviamo alle ultime grandi idee sull’educazione, figlie delle relative ideologie. Il socialismo dell’emancipazione oppure l’autoritarismo della selezione, entrambi fondati su una semplice distinzione: la teoria e la prassi, la formazione dello spirito e la formazione lavorativa.

In questo contesto, vecchio di un secolo, nacque l’ultima grande idea italiana di scuola; la riforma Gentile che a distanza di decenni ancora resta impressa nelle ultime pareti degli edifici scolastici. Ma arrivata a quel punto, la pedagogia era già morta, perché oramai all’apice del suo sviluppo moderno. 

Erano i tempi degli attivisti, dei vari Freinet, Claparède, Montessori, seminatori di precisi principi, nati da una chiara visione di uomo e quindi di allievo. Eccone alcuni: l’allievo deve partecipare attivamente alla costruzione del sapere; la formazione come scoperta continua e non come passivo assorbimento; il voto concepito come arbitrario strumento di classificazione e quindi di alienazione del vero significato educativo; l’impossibilità di separare l’educazione corporea da quella spirituale; l’approccio alla conoscenza deve essere globale, non specialistico; i manuali concepiti come la morte dell’insegnamento, strumenti che alimentano la riproduzione passiva e un asservimento obbediente; l’ambiente fisico dell’apprendimento determina la sua qualità.

Ed ora torniamo finalmente positivisti, ripristiniamo l’ordine lineare del progresso. Emergono oggi: edifici scolastici tristi, grigi, sciatti, razionalisti senza esser efficienti; allievi seduti sempre agli stessi banchi come fiere mal ammaestrate, con lo sguardo sospeso tra manuali (i bignami dell’istruzione sempre più vicini alle istruzioni per l’uso di Ikea) e schemi interattivi che scimmiottano le comunicazioni giovanili; materie rigidamente separate al punto che storia, filosofia e letteratura sembrano universi paralleli; il corpo lasciato a due ore fisiche e a qualche passeggiata tra bagno e banchi, tra distributori automatici e banchi; il voto come unico dogma della cosmologia scolastica, l’ultimo strumento di motivazione e disciplina rimasto nell’habitat scolastico; alunni chini a trascrivere la sapienza dettata da labbra schematiche. In breve, l’attivismo mutato in passivismo. Avanti con le prossime parole d’ordine, futuri strumenti di disordine.