Impossibile bypassare la questione dell’immigrazione affrontando le problematiche della comunità islamica in Italia e in generale in tutta Europa, meta di un flusso ininterrotto di uomini e donne che da oltre settant’anni ha per destinazione i Paesi fondatori della UE.
È proprio in Francia e Germania prima e poi via via negli altri Stati europei Olanda, Italia, Spagna ecc. che l’insediamento di migranti fortemente legati alla tradizione religiosa islamica e desiderosi di mantenerla, di viverla e di trasmetterla, ha dato vita al fenomeno socio-culturale dell’Islàm nell’Occidente culturalmente inteso e cioè sostanzialmente cristiano o laico.
Provenienti da aree in cui, pur annacquate dai regimi secolari che le governano da molti anni, le norme dello status personale si basano sulla shari’ah, i musulmani immigrati hanno dovuto immediatamente confrontarsi con una legislazione che non teneva conto in alcun modo di quanto consolidato in loro a livello di rapporti interpersonali soprattutto nel campo matrimoniale e dell’educazione dei figli.
Abituati com’erano, ad avere a che fare con i notai religiosi o altri funzionari governativi che applicavano le norme legali e anche consuetudinarie che rispecchiavano la loro identità, si trovavano all’improvviso senza riferimenti legali se non quelli strettamente legati alle associazioni religiose, insomma le moschee e i loro imam.
Se in altri posti al mondo i musulmani subiscono le guerre, le persecuzioni dei loro dittatori, la miseria; nei paesi di immigrazione sembra che la prova maggiore a cui sono sottoposti riguardi le relazioni matrimoniali e poi quelle genitori-figli a fronte delle quali mancano tutti quegli ammortizzatori familiari e sociali che possono risolvere le crisi o almeno ridurle d’intensità e preservare i loro attori.
In questo contesto l’imam della moschea, figura religiosa di riferimento di una comunità o di una zona, diventa il destinatario di una quantità di sollecitazioni a fronte, spesso, di una totale inadeguatezza anche solo a capire la situazione, non parliamo poi di poterla risolvere o almeno appianarla.
Tre tipi di imam
Il fatto è che abbiamo in Italia almeno tre tipologie di imam.
La più diffusa è rappresentata da persone provenienti, per lo più, dal Paese d’origine della maggioranza della comunità che sono deputati a curare.
Persone che hanno fatto qualche genere di studi religiosi, talvolta anche solo la madrasa tradizionale dove hanno imparato il Corano a memoria per poi corroborarne la comprensione “all’accademia degli youtuber”, senza un percorso preciso e molto spesso fortemente influenzati dalla predicazione salafita che imperversava sulla rete fino a pochi anni fa. Una lettura rigorista dell’Islàm che se sta bene in termini di ‘aqîda (dottrina) diventa esiziale se applicata ad un contesto umano ben diverso da quello in cui teoricamente dovrebbe-vorrebbe vivere un musulmano.
Questo imam vive nella moschea o nei suoi pressi, ha poco o nullo rapporto con la società circostante, spesso non parla neppure correntemente l’italiano e si arrabatta a campare con uno stipendio men che medio, spesso senza neppure una copertura previdenziale.
La sua competenza ad affrontare le crisi, che gli vengono rappresentate dai musulmani che pregano dietro di lui, è tutta nella sua saggezza e umanità, se le possiede, per il resto non sa quasi niente di come vive la gente al di fuori dell’ambito strettamente religioso, non ha conoscenze specifiche né strumenti adeguati.
Il secondo tipo di imam non è un professionista religioso, nel senso che non fa quello per vivere. È un artigiano, un commerciante, un imprenditore, un medico, che ha studiato la religione per fede e passione e si spende volentieri per la comunità, oltre a predicare settimanalmente dal minbar, che si occupa dell’amministrazione dell’associazione e conduce il luogo di culto e i rapporti con le istituzioni locali.
Questa figura proprio per il suo maggior inserimento nel contesto sociale e culturale, ha maggiori possibilità di riuscita nel dirimere nodi familiari anche complessi e, se disponibile all’ascolto, può essere un valido mediatore e pacificatore.
Infine ci sono quella ventina di veri sapienti, in gran parte provenienti dall’oriente arabo, che hanno fatto studi specifici e approfonditi, titolari di lauree e dottorati in scienze islamiche e non solo recitatori del Corano. Orientano moschee importanti soprattutto nel nord Italia, sono in grado di emettere fatawa (pareri legali) anche originali singolarmente o mediante consigli all’uopo costituiti. Purtroppo vivono in una sorta di torre d’avorio e la maggior parte di loro, nonostante la lunga permanenza nel nostro Paese (ultra decennale in molti casi), ancora non parlano l’italiano oltre il minimo colloquiale e si devono quindi avvalere di traduttori non sempre all’altezza delle loro argomentazioni sapienziali e giuridiche.
Matrimoni facili e divorzi impossibili
Tutti loro, “celebrano” per così dire matrimoni secondo la Legge e le tradizioni islamiche. Invero la stipula di un contratto matrimoniale (questo è l’atto formale con cui ci si sposa secondo la legge islamica) non avrebbe bisogno di nessun celebrante.
Arkan (pilastri ineludibili) del matrimonio sono: la volontà e la possibilità di contrarlo, la presenza di due testimoni, il tutore matrimoniale della sposa (a meno che non sia tayyeba, cioè già stata sposata e quindi vedova o divorziata, e a meno che non si consideri il fiqh hanafita che considera capace la donna adulta anche se mai sposata in precedenza) e il dono di nozze.
Normalmente c’è una khutba (un sermone potremmo dire) del matrimonio e poi la walima, la festa, anche minima, questi due ultimi passaggi non sono obbligatori ma raramente vengono omessi.
Il matrimonio è possibile tra musulmani e tra il musulmano maschio e una donna appartenente alla “gente della scrittura” cioè cristiana o israelita. La donna musulmana per giurisprudenza quasimente unanime non può sposare altri che un uomo musulmano.
Nel mondo islamico non ci si sposa in moschea, questo avviene solo dove non esiste una magistratura incaricata di questo compito. In Marocco ad esempio ci sono gli ahdul, che vengono a casa degli sposi e scrivono l’atto che poi legalizzano e registrano allo stato civile del comune in cui è avvenuto.
Andare a sposarsi in moschea avviene solo dove queste figure istituzionali non ci sono e per dare una parvenza di legalità all’atto.
In realtà si tratta di una scrittura privata senza quasi nessun valore legale se non quello di dimostrare che il matrimonio, islamico, è avvenuto realmente.
Fin qui nessun problema di rilievo, considerando la situazione di tipo neo-catacombale in cui versa la nostra comunità da un punto di vista legale. Insomma la Costituzione ci offre una quantità di diritti ma la legge non ce li garantisce e, comunque finché si tratta di matrimoni, in qualche maniera i musulmani riescono a sposarsi anche davanti a Dio oltre che presso lo stato civile.
Il problema insorge quando una donna si trova nella necessità di ottenere il divorzio per via giudiziale. Infatti la shari’ah prevede il talaq (detto comunemente ripudio) da parte del marito, il khol’o o divorzio con riscatto chiesto dalla moglie che il marito non dovrebbe-potrebbe negare, e il divorzio decretato da un giudice su richiesta della donna.
Non esistendo una giurisdizione islamica in Italia e in quasi tutti gli altri Paesi occidentali (in UK qualcosa c’è e se ne parla in altra parte di questo numero) nessuno può sciogliere d’autorità il matrimonio o costringere il marito ad acconsentire al khol’o.
Se il matrimonio è stato celebrato anche davanti all’ufficiale di stato civile del comune è comunemente ritenuta valida la fatwa che ritiene valido, anche dal punto di vista islamico, lo scioglimento decretato dal tribunale laico dello Stato e valide le condizioni stabilite dal giudice in merito all’affidamento e la custodia dei figli, la pensione alimentare e quant’altro nella fattispecie.
Se invece il matrimonio è stato solo religioso ecco che nella maggior parte dei casi la donna che, nell’ambito islamico, volesse essere liberata da quel vincolo si trova in grave difficoltà perché non trova chi si assuma la responsabilità di istruire una causa di divorzio e decretare in conseguenza.
Che fare allora?
Ci sembra evidente che non basterà la leggendaria intesa ex articolo 8 della Costituzione a risolvere questi problemi, quando e semmai sarà stipulata.
La specificità della Legge islamica è tale che difficilmente potrà essere recepita da una società che ormai accetta quasi tutto ma non, ad esempio, la poliginia.
Una soluzione potrebbe darsi nel prevedere un registro nazionale dei matrimoni islamici, l’iscrizione al quale costituirebbe l’accettazione preventiva di una giurisdizione islamica in caso di controversia divorziale.
Naturalmente su base volontaria e con facoltà di recesso e ricorso alla magistratura ordinaria.
Ora si tratta di vedere chi e con quali competenze e mezzi potrebbe istituire tale registro e gli organismi che potrebbero gestirne il corollario.