Mentre il mondo osserva lo svolgersi dell’escalation in Palestina, i pregiudizi dei media occidentali sono divenuti palesemente evidenti. Qualche mese fa, i giornalisti mostravano con orgoglio gli ucraini che fabbricavano bombe molotov per difendersi dalle forze russe, mentre altri come il New York Times intervistavano psicologi promuovendo attivamente l’idea che odiare i russi fosse una “reazione sana e naturale” all’occupazione. L’ipocrisia è innegabile: questi media comprendono pienamente i principi della resistenza e il diritto di difendersi dall’occupazione, ma la loro empatia selettiva non è mai più evidente che nella loro copertura della lotta palestinese per la libertà.
Olha Koba, psicologa a Kiev, ha affermato che “la rabbia e l’odio in questa situazione sono una reazione normale ed è importante convalidarli”. Ma è importante incanalarlo in qualcosa di utile, ha detto, come creare bombe incendiarie con bottiglie vuote. (New York Times)
L’evidente doppio standard nell’approccio dei media occidentali ai conflitti è allarmante. Le immagini degli ucraini che preparano bombe molotov sono acclamate come simboli di resistenza e resilienza contro l’oppressione. Tuttavia, quando si tratta del popolo palestinese, la narrazione cambia radicalmente. L’attivismo diventa improvvisamente “terrorismo” e il legittimo diritto di resistere all’occupazione viene opportunamente dimenticato.
È sconcertante che questi giornalisti, che si presentano come paladini della giustizia e difensori degli oppressi, non riescano ad applicare gli stessi principi universalmente. L’empatia selettiva mostrata quando si discute della causa palestinese non solo è ipocrita, ma perpetua anche una narrazione pericolosa e fondamentalmente razzista che mina la credibilità della politica e dei media in occidente.
Il caso del New York Times – ad esempio – in cui gli psicologi ucraini che sostengono l’odio verso i russi sono legittimati è particolarmente preoccupante. Questo è un duro promemoria del potere che i media detengono nel plasmare l’opinione pubblica. Sebbene la prospettiva degli psicologi possa essere valida nel contesto del conflitto ucraino, non si può fare a meno di chiedersi perché una piattaforma simile non venga fornita ai palestinesi che vogliono lottare per resistere e che hanno sopportato decenni di occupazione, espropriazione e aggressione.
Il paragone non mira a sminuire le lotte degli ucraini; piuttosto, è un appello alla coerenza nella copertura mediatica. Se le bombe molotov ucraine sono viste come strumenti di resistenza in un conflitto, perché il termine “terrorismo” viene usato con tanta disinvoltura quando si parla di resistenza palestinese? Il parallelo è chiarissimo: il diritto a difendere la propria terra e il proprio popolo è universalmente riconosciuto, tranne quando coinvolge i palestinesi.
Questo doppio standard ha conseguenze nel mondo reale ed oggi più che mai mentre molto media occidentali arrivano a giustificare il genocidio, l’occupazione, e la deportazione contro i palestinesi. Ciò perpetua una narrazione distorta che delegittima la lotta palestinese per l’autodeterminazione. Ciò alimenta l’idea che le vite palestinesi siano in qualche modo meno degne di empatia e comprensione. Una simile narrazione non fa altro che approfondire il divario e perpetuare l’ingiustizia.
È giunto il momento che i media occidentali riflettano sui propri pregiudizi e si ritengano responsabili. I giornalisti e gli organi di stampa non possono rivendicare un livello morale elevato quando applicano opportunamente principi di resistenza e difesa a un conflitto ignorandoli in un altro. La causa palestinese merita una copertura giusta e imparziale, priva di quell’empatia selettiva che per troppo tempo ha rovinato la rappresentazione della loro lotta da parte dei media. È tempo di assumere una posizione coerente e basata su principi sul diritto di resistere all’occupazione, indipendentemente da dove si verifichi nel mondo.