Il conflitto tra Israele e Hamas, scoppiato il 7 ottobre 2023, ha innescato una spirale di violenza che ha segnato la regione e ha coinvolto attori globali in un confronto che si estende oltre i confini di Gaza e della Palestina. Dopo l’offensiva di Hamas, la risposta militare israeliana ha provocato devastazione nella Striscia di Gaza, con decina di migliaia di vittime civili (200.000 secondo la ricerca di The Lancet) e una crisi umanitaria senza precedenti.
A un anno dall’inizio del conflitto, la guerra tra rimane irrisolta, fra montagne di morti, una popolazione palestinese devastata e una comunità internazionale divisa. Le pressioni internazionali per un cessate il fuoco non sono risultato in nulla di significativo, mentre la leadership israeliana continua a perseguire obiettivi espansionistici che renderanno difficile ogni prospettiva di pace duratura. La guerra non è più confinata alla Striscia di Gaza, con Hezbollah, l’Iran e altre forze regionali coinvolte in un conflitto che minaccia di allargarsi a tutto il Medio Oriente.
L’attacco del 7 Ottobre e la Risposta Israeliana
L”attacco del 7 ottobre 2023 da parte di Hamas e della Jihad Islamica Palestinese (JIP) ha rappresentato una risposta diretta e decisa contro decenni di occupazione israeliana e politiche di apartheid nei confronti del popolo palestinese. Con un assalto coordinato che ha travolto le difese israeliane, i combattenti palestinesi sono riusciti a penetrare le fortificazioni israeliane e a colpire direttamente i simboli della colonizzazione, come i kibbutz, insediamenti costruiti su terra espropriata. L’attacco, che ha coinvolto anche razzi, motoscafi e parapendii, ha dimostrato la capacità di Hamas di mettere Israele di fronte alla fragilità della propria sicurezza, scatenando una reazione militare furiosa da parte dell’occupante.
La reazione israeliana non si è fatta attendere, con raid aerei devastanti che hanno preso di mira Gaza già poche ore dopo l’assalto. In linea con la tradizione israeliana di risposta sproporzionata e mirata a causare il massimo danno (la dottrina Dahiya), le incursioni si sono intensificate nel corso dei mesi successivi, con bombardamenti indiscriminati che hanno causato migliaia di vittime civili e distrutto oltre due terzi degli edifici della Striscia. L’operazione terrestre israeliana, lanciata a fine ottobre, ha portato morte e distruzione, con un bilancio che entro l’ottobre 2024 ha superato i 41.000 morti diretti palestinesi e 200.000 morti indiretti, come sottolineato dalle stime della ricerca di The Lancet. Questi numeri evidenziano l’enorme squilibrio di potere tra le forze di occupazione israeliane e i combattenti palestinesi, e hanno sollevato aspri attacchi contro Israele in merito alla componente vendicativa e indiscriminata degli attacchi.
Il ruolo degli Stati Uniti in questo conflitto è stato fondamentale, ma profondamente problematico. All’inizio, Washington ha fornito un sostegno incondizionato a Israele, rafforzando il sistema Iron Dome e giustificando le operazioni israeliane come legittima difesa contro quello che veniva definito “terrorismo”. Tuttavia, col passare dei mesi, e con l’aggravarsi della crisi umanitaria a Gaza, l’opinione pubblica globale ha cominciato a virare. Da marzo 2024, sotto la crescente pressione internazionale e con immagini di devastazione e morte sempre più difficili da ignorare, l’amministrazione Biden ha iniziato a rivedere la propria posizione, probabilmente in vista delle elezioni e fare appello al suo bacino elettorale progressista (e tendenzialmente in favore dei diritti fondamentali dei palestinesi). Biden ha fatto delle dichiarazioni riferendosi a Netanyahu affinché Israele limitasse le operazioni militari e accettasse un cessate il fuoco, segnalando un’apparente incrinatura nel tradizionale sostegno statunitense a Israele. Questo cambio di rotta è stato comunque solo superficiale mettendo in evidenza il disagio crescente all’interno della stessa alleanza tra Israele e Stati Uniti e la frattura che riflette rispetto all’opinione pubblica a livello globale.
La Leadership di Hamas: Yahya Sinwar e la Crisi degli Ostaggi
Yahya Sinwar, leader di Hamas nella Striscia di Gaza, è emerso come uno degli attori più influenti nel conflitto del 2023-2024. Ex prigioniero in mano agli israeliani poi liberato, Sinwar è conosciuto per la sua abilità strategica e la sua visione politica intransigente. Sinwar ha orchestrato non solo l’offensiva iniziale contro Israele, ma anche la gestione degli ostaggi catturati durante l’assalto del 7 ottobre. Uno degli obiettivi principali di Hamas era quello di utilizzare gli ostaggi, inclusi civili e soldati israeliani, come leva per ottenere la liberazione di migliaia di prigionieri palestinesi detenuti in Israele, tra cui donne e bambini, detenuti spesso senza processo. La cattura degli ostaggi, secondo dichiarazioni ufficiali di Hamas, faceva parte di una strategia di scambio per liberare questi prigionieri, una motivazione centrale per l’assalto. La cattura degli ostaggi da parte di Hamas, benché condannata a livello internazionale, è stata giustificata dal movimento come un mezzo necessario per riequilibrare il potere in un contesto in cui i palestinesi sono costantemente sotto occupazione e repressione militare.
Diversi rapporti indicano che, a differenza delle accuse di abusi di massa contro i prigionieri, molti ostaggi sono stati trattati in modo adeguato, ricevendo cibo e assistenza medica. Hamas ha rilasciato dichiarazioni in cui ha ribadito che il trattamento degli ostaggi è in linea con la volontà di usarli come pedine per negoziati futuri e non come vittime di violenza. Gli esempi di accordi di scambio, come quello avvenuto a novembre 2023, che ha portato alla liberazione di 110 ostaggi in cambio di 240 prigionieri palestinesi, evidenziano come Hamas consideri questa tattica una parte integrante della sua lotta contro Israele.Tuttavia, la situazione rimase tesa, con molti altri ostaggi ancora detenuti e con l’intervento di mediatori internazionali, come il Qatar, che hanno cercato di sbloccare ulteriori accordi di scambio.
Un altro punto cruciale nella crisi degli ostaggi è stato l’assassinio di Ismail Haniyeh, leader di Hamas all’estero e figura chiave nei negoziati, ucciso a luglio 2024 in un attacco israeliano a Teheran. La morte di Haniyeh ha complicato ulteriormente le negoziazioni, consolidando il controllo di Sinwar e polarizzando la posizione di Hamas rispetto a futuri scambi di prigionieri e cessate il fuoco.
L’Asse della resistenza
I ruolo dell’Iran nel conflitto tra Israele e Hamas si è intensificato nel tempo, trasformandosi in un elemento chiave dell’asse della resistenza anti-israeliana, che include anche Hezbollah e la Jihad Islamica Palestinese. Sin dal 2017, i legami tra Hamas e l’Iran si sono rafforzati, con Teheran che ha fornito supporto militare, finanziario e logistico a Hamas, contribuendo significativamente a potenziare le capacità offensive del gruppo palestinese. L’Iran ha sostenuto attivamente le azioni di Hamas, vedendole come parte di una strategia regionale per contrastare l’influenza israeliana e americana in Medio Oriente.
L’Iran non ha solo sostenuto Hamas e Hezbollah in quanto elementi strategici per la sua influenza nella regione, ma ha anche consolidato la sua posizione di guida all’interno di quella che viene spesso definita “l’asse della resistenza”, una coalizione di movimenti e gruppi armati in opposizione a Israele e alle potenze occidentali (in particolare americana). Questo asse, che include Hezbollah, Hamas e le milizie sciite in Iraq e Yemen, funge da estensione del potere iraniano nella regione. La politica dell’Iran si basa su una combinazione di supporto militare, finanziario e ideologico per questi gruppi, che condividono l’obiettivo di indebolire Israele e contrastare l’influenza americana nel Medio Oriente.
La crescente presenza militare iraniana in Siria ha ulteriormente rafforzato la capacità dell’asse della resistenza di coordinarsi e attuare operazioni su più fronti. Israele, che percepisce questa rete di alleanze come una minaccia esistenziale, ha risposto inizialmente con attacchi alle infrastrutture militari iraniane in Siria e ai convogli di armi destinati a Hezbollah in Libano per culminare con l’attacco terroristico dei cercapersone in Libano ed una serie di brutali bombardamenti che è risultato in più di 2.000 morti civili nell’arco di pochi giorni. Di conseguenza, la rivalità tra Israele e l’Iran ha assunto una dimensione regionale, trasformando il conflitto tra Israele e Hamas in un episodio di una più ampia lotta geopolitica tra Israele e l’Iran per la supremazia nella regione.
Inoltre, l’ultimo anno ha mostrato in mood chiaro in che misura l’Iran vede il sostegno a Hamas come una leva per aumentare la propria influenza politica tra i movimenti palestinesi, offrendo una visione alternativa a quella dell’Autorità Palestinese, percepita come corrotta e sotto il controllo di Israele. Attraverso il supporto a Hamas, l’Iran si propone come difensore principale della causa palestinese, consolidando il suo ruolo di oppositore principale di Israele in tutto il mondo arabo-islamico.
L’assassinio di Ismail Haniyeh in un attacco israeliano a Teheran ha rappresentato un momento cruciale, ma l’Iran, pur evitando uno scontro diretto immediato, ha intensificato il suo sostegno a Hamas, mantenendo la sua influenza nel conflitto. A settembre, l’uccisione di Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah e altro pilastro dell’alleanza iraniana, ha provocato una risposta diretta da parte dell’Iran, che ha lanciato 180 missili balistici verso Israele, cercando di colpire basi militari e obiettivi strategici. Nonostante il sistema antimissilistico Arrow 3 sia riuscito a intercettare molti dei missili, l’attacco ha dimostrato i limiti operativi delle difese israeliane ed in particolare di Iron Dome, evidenziando un’escalation significativa del conflitto.
Parallelamente, gli Houthi nello Yemen, sostenuti anch’essi dall’Iran, hanno lanciato droni e missili verso Israele, e Hezbollah ha intensificato gli attacchi dal Libano Questi attacchi coordinati hanno sollevato il timore di un allargamento del conflitto, con il rischio di coinvolgere tutto il Medio Oriente.
Mentre il conflitto principale si concentrava nella Striscia di Gaza, la minaccia di un secondo fronte lungo il confine settentrionale di Israele con il Libano è divenuta presto una realtà concreta. Hezbollah, forte alleato dell’Iran e sostenitore della resistenza armata contro Israele, intensificò dopo poco le sue operazioni nel sud del Libano, alzando la posta in gioco in uno scenario già devastato dalla violenza. La tensione esplose nel luglio 2024, quando un razzo lanciato da Hezbollah colpì una comunità drusa nelle alture del Golan, uccidendo 12 persone. Questo attacco segnò un’escalation significativa, portando Israele a rispondere con una serie di attacchi aerei devastanti su Beirut. Uno degli obiettivi principali degli attacchi fu Fuad Shukr, uno dei comandanti di Hezbollah, veterano della resistenza e coinvolto negli attentati alle caserme di Beirut del 1983, considerato uno dei simboli della lotta anti-israeliana.
Il punto di svolta giunse però a settembre, quando Israele lanciò l’attacco aereo che portò all’uccisione di Hassan Nasrallah. La morte di Nasrallah e poi del suo probabile successore Hashem Safieddin rappresentò un colpo durissimo per Hezbollah e l’Iran, destabilizzando il movimento e suscitando forti reazioni. La morte di Nasrallah segna un momento critico nel conflitto, ma apre anche nuove incognite sul futuro delle operazioni di Hezbollah e sull’equilibrio di potere nella regione.
La crisi umanitaria e la reazione internazionale
A partire da novembre 2023, la crisi umanitaria nella Striscia di Gaza ha raggiunto livelli drammatici, alimentata dall’assedio israeliano che ha tagliato l’accesso a risorse vitali come acqua, cibo, elettricità e carburante. Il blocco, insieme ai bombardamenti continui, ha aggravato le sofferenze della popolazione civile, rendendo le condizioni di vita insostenibili. Ospedali, scuole e infrastrutture essenziali sono stati distrutti, mentre oltre 1.4 milioni di palestinesi sono stati sfollati all’interno della Striscia. Le Nazioni Unite e varie ONG hanno denunciato l’aggravarsi della situazione, sollecitando un cessate il fuoco immediato per permettere l’arrivo degli aiuti umanitari. Tuttavia, Israele, forte del sostegno interno e internazionale, ha rifiutato, ribadendo che l’obiettivo era smantellare completamente le capacità militari di Hamas.
Mentre il conflitto continua a devastare Gaza – con massacri con quello dell’ospedale Al-Ahli risultato in circa 500 morti e quello a Nuseirat costato 200 vite per liberare 4 ostaggi – la crisi si è espansa anche in Cisgiordania. A partire da novembre, l’esercito israeliano ha intensificato gli attacchi nei campi profughi palestinesi, specialmente a Jenin e Nablus, provocando un alto numero di vittime civili. Anche i coloni israeliani, alimentati dalla retorica incendiaria di figure come Itamar Ben-Gvir, hanno aumentato le violenze contro i palestinesi, mettendo in piedi attacchi terroristici ed esacerbando ulteriormente le tensioni.
Mentre a Gaza si consumava il massacro, a dicembre 2023, il Sudafrica ha formalmente accusato Israele di genocidio presso la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ), evidenziando le somiglianze tra l’oppressione dei palestinesi e il regime di apartheid vissuto dal popolo sudafricano. Questa accusa ha scatenato un acceso dibattito globale, richiamando l’attenzione internazionale sulla brutalità dell’assedio israeliano. Pretoria ha invocato l’intervento della comunità internazionale, sottolineando come le azioni israeliane costituissero una violazione del diritto internazionale.
Le pressioni globali contro Israele sono poi cresciute ulteriormente a marzo 2024, quando gli Stati Uniti si rifiutarono di porre il veto a una risoluzione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che chiedeva un cessate il fuoco immediato. Questo segnò una svolta nella politica internazionale verso Israele, con il presidente Joe Biden che avvertì Netanyahu che il continuo massacro di civili stava erodendo il sostegno globale a Israele. Nello stesso mese, il presidente della Corte Penale Internazionale (CPI), Karim Khan, aprì un’indagine su possibili crimini di guerra, coprendo le azioni di entrambe le parti, inclusi i bombardamenti israeliani su aree civili e l’uso di strutture civili da parte di Hamas come basi militari. Israele respinse categoricamente le accuse, definendo l’indagine faziosa e difendendo il diritto alla legittima difesa.
In parallelo, la Corte Internazionale di Giustizia (ICJ) emise un parere consultivo che confermava l’illegalità dell’occupazione israeliana dei territori palestinesi e la violazione del diritto internazionale per la costruzione di insediamenti. Israele rigettò il parere, rimanendo intransigente sulle sue operazioni militari, sostenendo che il diritto alla difesa giustificava ogni sua azione. Tuttavia, la pressione internazionale, soprattutto in seguito al rapporto de The Lancet di luglio 2024, che stimava un numero di morti indirette quattro volte superiore a quello delle vittime dirette (circa 200.000 morti palestinesi stimati in totale) a causa della distruzione delle infrastrutture sanitarie, continuava a crescere, portando milioni di persone in tutto il mondo a chiedere un’azione più decisa per porre fine al conflitto e fermare la devastazione di Gaza.
L’Invasione di Rafah e la lotta per il Corridoio di Filadelfia
L’invasione di Rafah da parte delle forze israeliane a partire da maggio 2024 ha rappresentato uno dei momenti più decisivi e controversi della guerra. Rafah, situata al confine tra Gaza ed Egitto, era l’ultimo luogo sicuro lontano dai combattimenti neo resto della Striscia. Per Netanyahu, mantenere il controllo di questo corridoio era fondamentale come garanzia per qualsiasi futuro accordo di pace, suscitando però l’indignazione della comunità internazionale.
L’assalto su vasta scala a Rafah ha provocato una catastrofe umanitaria: più di 800.000 palestinesi sfollati, aggiungendosi a quelli già colpiti dai precedenti attacchi, mentre le perdite civili sono state pesanti, aggravando la già critica situazione umanitaria nella Striscia. Nonostante l’offensiva devastante, Hamas ha continuato a resistere con una guerriglia determinata, utilizzando i tunnel sotterranei per lanciare attacchi contro le truppe israeliane.
Sangue, macerie, speranza
Un anno di conflitto ha lasciato Gaza in macerie, ma la vera battaglia è ben lontana dall’essere finita mentre bombardamenti continuano nel Nord della Striscia e mentre le forze palestinesi continuano i loro assalti contro le forze israeliane lungo Gaza. Il desiderio dei palestinesi di resistere – nato da anni di oppressione israeliana – non può dunque essere interpretato con la chiave di lettura di mera azione di violenza compiuta da un barbaro. Si tratta piuttosto del grido disperato di un popolo che ha subito decenni di espropriazioni, oppressione e apartheid. Chiedere una pace senza giustizia significa chiedere al popolo palestinese di accettare la propria sottomissione, di piegarsi all’arbitrio di un oppressore che ha sempre dettato le regole di un gioco sporco.
Le scene dei bambini fatti a pezzi, degli stupri nelle prigioni, dei soldati israeliani che odoravano gli indumenti intimi delle donne palestinesi e giocavano coi giocattoli dei bambini che avevano ucciso poc’anzi, ma anche i canti genocidi e le esultazioni goliardiche di fronte alla morte ci mettono di fronte alla dura realtà: non c’è spazio per il perdono quando l’oppressore continua a perpetrare crimini e a negare l’esistenza e la dignità di un intero popolo. La lotta come sancita dal diritto internazionale non è solo legittima, ma necessaria. La pace, intesa come cessazione della violenza, senza un rovesciamento delle ingiustizie strutturali che la causano, è solo un altro strumento di repressione. La voglia dei popoli oppressi di resistere continuerà, perché il perdono e la resa di fronte all’oppressore non sono segni di pace, ma di debolezza. Solo quando la giustizia sarà pienamente realizzata e la libertà riconquistata, il popolo palestinese potrà finalmente respirare libero dalle catene dell’occupazione e poi – forse – perdonare.