La manifestazione di Roma si è tenuta lo stesso: cronaca di una vittoria politica

Ieri a Roma i manifestanti si sono radunati in una potente dimostrazione di solidarietà con la Palestina. Nonostante il divieto deciso dal governo e le condizioni meteorologiche avverse, l’evento diventa un simbolo di resistenza e speranza.

Intorno alle 19, l’ora della preghiera del maghreb, il quartiere di San Saba a Roma – un grazioso piccolo quartiere anni Trenta a ridosso delle mura aureliane, una volta economico e popolare, oggi colonizzato da funzionari della Fao e altri expats di lusso – presentava lo spettacolo inconsueto di nutriti flussi di manifestanti che in rivoli tracimavano nelle sue viuzze provenienti dal piazzale Ostiense, dove all’ombra della Piramide Cestia era appena terminata la grande manifestazione per la Palestina ad un anno dalla storica data del 7 ottobre 2023.

Sul largo viale di Porta Ardeatina defluiva un corteo massiccio e spontaneo, nei baretti della zona bivaccavano i manifestanti in trasferta arrivati fortunosamente a Roma, sotto le mura lampeggivano i blindati delle forze dell’ordine e tra le nuvole basse planava ad ampi cerchi un elicottero militare mentre sui tetti terrazzati delle eleganti palazzine residenti sorpresi osservavano la scena e all’orizzonte si alzavano nuvole di fumo.

Sul bilancio della giornata sono partite le polemiche anche in seno ai sostenitori della causa palestinese. E tuttavia, a tirar le somme al netto di (pochi) incidenti, feriti, fermati e fogli di via si è trattato di un notevole successo per, nell’ordine: la causa palestinese ed i suoi sostenitori e simpatizzanti, gli organizzatori dell’evento, i numerosi attori politici coinvolti in un complesso processo di gestazione e negoziazione. La manifestazione, convocata da tempo, era stata vietata, come da dichiarazione del ministro del’Interno Piantedosi, perché con essa i suoi promotori avrebbero teso a “celebrare l’esaltazione di un eccidio.” Tale motivazione è stata debitamente contestata da fior fior di costituzionalisti oltre che da Amnesty International tanto che alla fine giunge una soluzione di compromesso: viene autorizzato lo svolgimento di un “presidio statico” alla Piramide. E questo è il primo successo: la manifestazione, da illegale, diventa, pur con tutti i limiti, legale: scusate se è poco.

L’autorizzazione arriva in zona Cesarini: i manifestanti lo apprendono via social mentre sono già per strada, o a Roma, o alla Piramide. Alle 14, ora di inizio, molti ancora non lo sanno: la polizia ha circondato piazzale Ostiense con camionette, reparti in tenuta antisommossa ed enormi grate che trasformano la zona in una gabbia. Lungo viale della Piramide Cestia i flussi nei due sensi sono ancora relativamente agevoli malgrado l’imponente schieramento di forze dell’ordine per un buon motivo: è un viale turistico, che porta ai Fori e al Colosseo e di turisti ce ne sono tanti, anche quelli con i loro trolley colti alla sprovvista da un inedito sciopero nazionale del trasporto pubblico (mai a memoria d’uomo ve ne fu uno un sabato nella Capitale).

Difficile distinguere i manifestanti dai turisti (e dagli infiltrati, penso io che vorrei fare interviste). Su viale di Porta Ardeatina è un’altra storia: gruppetti di manifestanti che stanno confluendo verso la piazza vengono sistematicamente bloccati. Incrocio quattro ragazze: guardo la kefiah di una di loro, lei guarda il mio hijab poi ci scambiamo un sorriso meglio di una parola d’ordine: ci possiamo fidare reciprocamente. Confidano: “Siamo riuscite a parcheggiare, lontano, ma non riusciamo a trovare un accesso …” – “Andate una per una, togliti la kefiah, ricordatevi che possono chiedervi i documenti ma non fermarvi: la manifestazione è autorizzata.” Un paio di ore dopo incapperò di nuovo in loro nella piazza gremita: “Siamo riuscite a passare ma ci hanno prima identificato!” Così carine ed educate? La manovra era quella di scoraggiare.

E per scoraggiare c’è stato veramente di tutto. Il divieto iniziale che ha bloccato soprattutto chi veniva da fuori; lo sciopero dei trasporti e perfino la pioggia. Alle due si dirige verso la piazza un corteo di ombrelli multicolori – piove a dirotto – e tre grandi palloncini con i colori della bandiera palestinese a mò di stendardo. Una piazza sembra tutta dei centri sociali: negli slogan pro Palestina e contro Meloni sono tutt’uno. Mi guardo intorno: la Palestina, palloncini a parte? E magari anche un pensierino per il Libano? E i musulmani? Forse ho sbagliato manifestazione, qui c’è Rifondazione, Potere al Popolo, un po’ di falce e martello, anticapitalismo di altri tempi: infatti, ci sono giovanissimi e qualche grande vecchio. Poi incomincia ad arrivare il ceto medio – medio di età e di classe, molte donne, arrivano quelli della Rete di Sanitari per Gaza, quelli che sono venuti per conto loro, senza essere di nessun particolare partito o gruppo, organizzandosi da soli, e sono tanti. Mi sento decisamente più in sintonia con l’ambiente – ma sono l’unica donna che porta il hijab. Le sorelle? La ummah? Hanno mandato solo i maschi? O sono tutte diventate laiche? La prima donna che porta il velo la vedo dopo un paio d’ore.

Giovane, con un bambino nel passeggino, un altro appena un po’ più grande, un figlio adolescente che sventola una grande bandiera. Le chiedo di dov’è. “Iran!” risponde con un grande sorriso. La bandiera del figlio è un’accurata composizione; in centro le bandiere di Palestina e Libano, intorno i colori di Siria, Yemen, Iraq, Iran: l’Asse della Resistenza, dice serio il ragazzo, rappresentato da questa minuscola delegazione. Sopra un’altre grande bandiera, con i colori yemeniti, una mano ha tracciato a penna, a caratteri cubitali: “Yemen, Yemen make us proud/Turn another ship around!” Grandi Yemeniti. Saranno raggiunti più tardi da una donna con chador nero, e da una famiglia con bimba graziosamente velata. Al di fuori del gruppetto sciita, di hijab ne vedo solo altri due o tre. Una ragazza carina: “Di dove sei?”-“Palestina!” Una donna placida e sorridente in mezzo alla confusione, scortata da due figli adolescenti nerissimi di occhi e capelli. Mi saluta calorosamente. “Di dove sei?” – “Origine: Egitto. Ma vivo a Reggio Emilia.” – “Ma shaà Allah! Con chi sei venuta? – “Con loro!” – “E poi?” – “Basta, solo noi”.

C’è anche lo striscione rosso del Jewish Bloc for Palestine. Proclama che “Nessuno sarà liber* finché non lo saremo tutt*”. Sono un pugno di giovani e una signora matura che mi guarda attentamente poi mi allunga un volantino molto elaborato. Parla di “genocidio, pulizia etnica, occupazione e apartheid da 76 anni”, di “Palestina storica dal fiume al mare.” Abbondano le schwa, ma vabbè. Un altro gruppo come quelli che recentemente si sono attirati addosso le ire della comunità ebraica di Roma proclamando “Not in my name”. Mi ricordano i (pochi) Bianchi che nel Sudafrica dell’apartheid lottavano a fianco dei Neri.

La manifestazione è plurale e pacifica, che più pacifica di così non si può, lungo la via Ostiense lo schieramento delle forze dell’ordine (qui c’è la Guardia di Finanza) è soft, sul marciapiede gente che viene e gente che va, si riforniscono di pizza e birre nelle tavole calde della zona, poi tornano nel cerchio magico presieduto dalla polizia, credo che tenendo conto di questi movimenti, le persone in piazza ne saranno quasi diecimila. Secondo successo, dunque, chi ci avrebbe scommesso? Perché non c’era solo il divieto iniziale, lo sciopero, la pioggia. C’erano, assai più gravi, le divisioni all’interno della stessa comunità palestinese, con un messaggio assai brutto della Comunità palestinese di Roma e del Lazio (ovvero l’ANP) che dalla manifestazione si è ritirata.

In quanto ad infiltrati e provocatori, li temevano per primi i manifestanti. Senza appoggi politici e mediatici di peso, con le posizioni del governo e dell’Europa tutta che conosciamo, il rischio di una repressione brutale appariva tutt’altro che remoto. E devono esserci stati negoziati di peso, dietro le quinte, per arrivare infine ad un compromesso. E attori diversi avranno fatto capire che seppur dissenzienti non avrebbero legittimato un massacro. Ne sono conseguite determinate direttive palesemente impartite alle forze dell’ordine.

Quest’ultime infatti erano in modalità “calma” come appariva evidente a chiunque abbia sperimentato la modalità “nervosa”. Mentre verso le quattro incominciavano a circolare voci di corteo li vedevi allacciarsi il casco, poi toglierlo, poi allacciarlo di nuovo, li sentivi parlottare “vogliono un corteo” mentre il flusso di gente continuava ad andare e venire tranquillamente. Quando si è sentito il primo botto la manifestazione era conclusa, erano stati librati in cielo i tre palloncini rosso nero e verde con attaccata una bandiera palestinese, il furgoncino su cui si erano alternati gli oratori (ma si sentiva pochissimo) adesso sparava musica palestinese e sullo spiazzo vuoto che si era creato si ballava un po’ di dabka autentica e molta disco orientale fasulla e nessuno fece caso al primo botto e nemmeno al secondo. Sorpresa da tanta indifferenza, guardai in direzione di viale Ostiense, dove poco prima un ennesimo tentativo di corteo di stava formando da me snobbato perché ritenuto del tutto velleitario.

Vidi un denso fumo rosso: questa non è roba da polizia, forse un piccolo razzo per celebrare la riuscita della manifestazione? Terzo botto – e mi allontano, altri incominciano a fare lo stesso, ma con calma. Una coppia di genitori si ritira senza fretta, spingendo tranquillamente il passeggino del pargolo. Quarto, quinto, sesto botto ed ecco l’odore acre inconfondibile dei lacrimogeni. I soliti provocatori, o i soliti idioti, o gli uni e gli altri insieme hanno lanciato bombe carte e bottiglia contro la polizia nel tentativo (ma chi ci crede) di “sfondare” il blocco e fare il corteo.

Mi copro il volto con un foulard che ho in borsa (lo avevo portato da usare come sajada in caso non rientrassi prima del maghreb) e mi allontano con gli altri, senza correre, siamo tutti tranquilli, su per viale di Porta Ardeatina bloccato dalla polizia che apre un piccolo varco tra le camionette dove i manifestanti possono passare solo a uno o due per volta. Mentre arrivano coloro che erano più vicini agli scontri, e si sono infilati dentro il Centro di calcolo dell’Acea e ora tentano di uscirne scavalcando il recinto (l’ho fatto anch’io quando ero all’università). Gridano “vergogna, vergogna” ma forse non ci credono più che tanto nemmeno loro. Perché insomma siamo stati un pomeriggio tranquilli su un piazzale circondato da ogni lato, dalla polizia e ora stiamo defluendo attraverso uno stretto varco e avrebbero potuto massacrarci cento volte come sa chi ricorda Genova (ma quanti di loro hanno l’età per ricordare?)

E questo alla fine è il terzo successo. Bando alle ipocrisie, la posta in gioco di questa manifestazione era proprio la definizione del 7 ottobre: per numero e partecipanti, pluralista e pacifica, e sia pure in extremis “legalizzata” ha definitivamente legittimato quella data non come “rivoluzione” – termine di un manifesto che ha suscita molte polemiche ma per motivi sbagliati: non era una definizione immorale, era solo errata – ma come atto di resistenza e guerra di liberazione. Chi ricorda i tempi in cui bastava una telefonata dell’ambasciata israeliana per annullare senza preavviso qualsiasi manifestazione della comunità palestinese – fosse pure convocata in Campidoglio in accordo con le istituzioni – può misurare quanto sia mutata la situazione. Anche se i media tutti parleranno solo degli scontri.