[Contenuti sensibili] Il “mattatoio umano” del regime di al-Assad in Siria, la prigione di Saydnaya

Attenzione: contenuti sensibili 

Situata a nord di Damasco, Saydnaya è una prigione di massima sicurezza nota per la sua posizione isolata e la presenza di numerosi campi minati che circondano l’area, dissuadendo qualsiasi tentativo di fuga. Dal suo impianto, che risale agli anni ’80, è stata utilizzata dal regime di Bashar al-Assad come uno degli strumenti principali per l’eliminazione fisica e psicologica degli oppositori politici. Per quasi quattro decenni, questa prigione è diventata un simbolo della repressione e del controllo autoritario esercitato dagli Assad, che ha ridotto al silenzio attivisti, dissidenti e chiunque fosse percepito come una minaccia al potere.

La brutalità all’interno di Saydnaya è venuta alla luce quando è stato rivelato un rapporto sui detenuti siriani del 2014, chiamato “Caeser’s Report”, che descrive in dettaglio “l’uccisione sistematica di oltre 11.000 detenuti da parte del governo siriano in una regione durante la guerra civile siriana in un periodo di due anni e mezzo da marzo 2011 ad agosto 2013“. Con l’inizio della guerra civile siriana, quando le manifestazioni contro il regime sono diventate più ampie e violente. Migliaia di prigionieri politici sono stati arrestati, torturati e uccisi in quel periodo. La prigione è diventata sinonimo di atrocità: i detenuti subivano torture fisiche e psicologiche, tra cui violenze sessuali, privazione del sonno, sevizie fisiche, e condizioni di detenzione disumane che includevano celle sovraffollate, scarse condizioni igieniche e il rifiuto di cure mediche essenziali.

Inoltre, la prigione di Saydnaya è famosa per i suoi “processi” farsa, che erano in realtà simulazioni di giustizia, dove le decisioni erano già prese dal regime prima ancora che avesse luogo l’udienza. I prigionieri, spesso arrestati senza accuse formali o prove, venivano condannati in contumacia o in processi che non rispettavano i diritti fondamentali della difesa. L’assenza di trasparenza e il carattere puramente politico di tali procedimenti legali hanno contribuito a creare un clima di terrore e di ingiustizia.

La situazione ha attirato l’attenzione delle organizzazioni internazionali per i diritti umani, tra cui Amnesty International, che ha documentato in modo dettagliato la situazione a Saydnaya. Nel 2017, la ONG ha accusato il governo siriano di una “politica di sterminio” nei confronti dei prigionieri. Amnesty ha riferito di esecuzioni di massa, in cui i detenuti venivano impiccati in segreto, e ha denunciato un sistema di detenzione che mirava a distruggere fisicamente e psicologicamente i prigionieri. La prigione, infatti, divenne il luogo emblematico delle atrocità compiute dal regime, testimoniando la brutalità della repressione contro chiunque fosse sospettato di opporsi al potere centrale.

l’8 dicembre 2024, un evento significativo ha avuto luogo quando i ribelli siriani, che hanno contribuito a smantellare il regime di Bashar al-Assad, hanno annunciato di aver liberato i detenuti di Saydnaya, tra cui giornalisti, manifestanti, medici e studenti. Questa liberazione ha rappresentato un importante simbolo di resistenza e di speranza per molti, ma ha anche sottolineato le gravi violazioni dei diritti umani compiute dal regime siriano durante gli anni della guerra civile.

Saydnaya non è solo una prigione, ma è un luogo simbolo che rappresenta la storia di un regime disposto a eliminare innumerevoli vite umane per mantenere il suo controllo assoluto. La sua liberazione rappresenta una vittoria simbolica non solo per i prigionieri, ma per tutti coloro che hanno lottato contro l’oppressione e per la libertà in Siria. 

Un po’ di contesto

Tra il 1980 e il 2000, il regime di Hafez al-Assad è stato responsabile della sparizione forzata di circa 17.000 persone in Siria, oltre a decine di libanesi, palestinesi e altri arabi durante la sua occupazione del Libano. Nel 1987, Amnesty International documentò l’uso di 35 metodi di tortura da parte del governo, finalizzati alla repressione del dissenso. Chiunque fosse percepito come un oppositore del regime rischiava di essere arrestato, torturato o sparito.

Queste pratiche abusive sono state una delle cause scatenanti delle prime manifestazioni nel 2011, quando il governo arrestò e torturò 15 studenti per aver scritto slogan antigovernativi a Der’a. Le loro famiglie protestarono, ma la risposta del governo fu violenta, scatenando una serie di manifestazioni che si diffusero in tutta la Siria. Con l’aggravarsi della crisi, le violazioni contro i detenuti aumentarono esponenzialmente, con decine di migliaia di arresti attraverso incursioni nei quartieri, posti di blocco e luoghi di lavoro, università e case. I prigionieri erano principalmente oppositori pacifici, giornalisti, medici e familiari di sospetti oppositori. Le forze di sicurezza, in particolare le agenzie di intelligence siriane, erano responsabili di questi arresti.

I detenuti venivano portati in una rete di centri di detenzione sparsi in tutta la Siria, dove subivano sparizioni forzate, separati dai loro cari e tenuti all’oscuro sulla loro sorte. La tortura iniziava subito dopo l’arresto, con severe percosse, torture psicologiche e fisiche, violenza sessuale e abusi fisici durante gli interrogatori. Il fine era ottenere false confessioni da utilizzare in processi sommari e ingiusti. I detenuti venivano anche privati dei bisogni essenziali come cibo, acqua, cure mediche e igiene, vivendo in celle sovraffollate e malsane. Le malattie, come scabbia e infezioni, dilagarono, e molti svilupparono psicosi a causa delle terribili condizioni.

Le indagini di Amnesty rivelarono che le uccisioni tra il 2011 e il 2015, si stima siano di almeno 17.723 persone sotto la custodia del governo, con una media di 300 morti al mese. Questo numero potrebbe essere molto più alto, come indicato da Amnesty International e da gruppi di monitoraggio dei diritti umani. Un fotografo della Polizia Militare, noto con il nome in codice “Caesar”, ha documentato segretamente migliaia di foto di detenuti morti, testimonianza della brutalità del regime. Le cause comuni di morte includevano infezioni gastrointestinali, malattie della pelle, torture, malattie mentali e croniche, oltre al rifiuto di mangiare e bere causato dalle condizioni di detenzione.

La struttura 

La prigione era composta da due strutture principali: l’edificio bianco, che ospitava principalmente ufficiali militari e soldati accusati di slealtà verso il governo, e l’edificio rosso, che aveva una forma particolare a tre punte e ospitava indicativamente tra 10.000 e 20.000 detenuti. Dal 2011, l’edificio rosso era destinato a prigionieri cosiddetti islamisti, ma con l’inizio della crisi era stato utilizzato per detenere oppositori del regime. Questi detenuti, spesso arrestati per il loro coinvolgimento nei disordini, erano sottoposti a torture durante gli interrogatori, durante i quali “confessavano” crimini gravi, come l’omicidio di soldati siriani.

Le confessioni estorte sotto tortura portavano i detenuti a subire processi sommari presso i tribunali militari da campo, che duravano solo pochi minuti e senza che i detenuti avessero accesso a un avvocato o a informazioni sulla loro condanna. Questi procedimenti non erano considerati giuridicamente validi.

La maggior parte dei detenuti nell’edificio rosso era composta da civili, percepiti dalle autorità siriane come oppositori, tra cui manifestanti, dissidenti politici, difensori dei diritti umani, giornalisti, medici e studenti. Dopo il 2011, l’edificio rosso era diventato un simbolo della repressione politica del regime. I detenuti, descritti come “rivoluzionari”, erano ritenuti collegati alla rivoluzione, e l’edificio rosso era visto come il luogo in cui il regime metteva fine a queste figure di opposizione.

I rilasci da Saydnaya erano rari, in particolare per i detenuti dell’edificio rosso. La maggior parte dei prigionieri veniva liberata tramite amnistie presidenziali o scambi di prigionieri, ma spesso le loro famiglie dovevano pagare tangenti per garantire la liberazione. Alcuni ex detenuti hanno raccontato che, prima del rilascio, venivano costretti a firmare dichiarazioni false in cui affermavano di essere stati trattati in modo equo e umano durante la detenzione, nonostante la realtà fosse ben diversa.

La difficoltà di accesso ai resoconti giornalistici e alle indagini indipendenti ha reso estremamente complicato ottenere informazioni sulla prigione di Saydnaya. Le uniche fonti disponibili sugli eventi all’interno di questa prigione provenivano dai ricordi dei sopravvissuti. Nel 2016, Amnesty International e Forensic Architecture si sono recati in Turchia per intervistare cinque sopravvissuti ex “detenuti” di Saydnaya.

I ricercatori hanno utilizzato tecniche avanzate di modellazione architettonica e acustica per ricostruire la struttura della prigione e le esperienze vissute dai sopravvissuti. Poiché non esistevano fotografie della prigione e i prigionieri erano costantemente isolati e costretti al silenzio, i ricercatori si sono affidati completamente alla memoria dei sopravvissuti, che includeva una consapevolezza acuta dei suoni, come i passi, i rumori delle porte che si aprivano e si chiudevano e i gocciolii d’acqua dai tubi. L’assenza di luce naturale costringeva i prigionieri a sviluppare una sensibilità eccezionale verso i suoni.

Ogni volta che una guardia entrava nella stanza, i detenuti coprivano gli occhi con le mani, il che li rendeva particolarmente attenti anche ai rumori più impercettibili. In una video intervista, un ex prigioniero ha raccontato: “Cercavi di costruire un’immagine basata sui suoni che sentivi. Riconoscevi una persona dal rumore dei suoi passi, capivi quando era l’ora dei pasti dal suono della ciotola. Se sentivi delle urla, sapevi che erano arrivati i nuovi prigionieri. Quando non c’erano urla, capivamo che erano ormai abituati alla prigione”.

Il suono è quindi diventato un mezzo per orientarsi e misurare lo spazio, e uno degli strumenti principali per la ricostruzione digitale della prigione.

L’artista del suono Lawrence Abu Hamdan ha utilizzato una tecnica chiamata “echo shaping”, che gli ha permesso di determinare le dimensioni delle celle, delle scale e dei corridoi. Ha riprodotto vari toni e chiesto agli ex detenuti di associare queste frequenze, misurate in decibel, a specifici eventi che avevano vissuto all’interno della prigione.

Grazie a queste testimonianze e al supporto di un architetto che ha utilizzato software di modellazione 3D, Amnesty International e Forensic Architecture hanno ricostruito un modello dettagliato dell’intera prigione. I testimoni hanno contribuito aggiungendo ricordi di oggetti come strumenti di tortura, coperte, mobili e aree specifiche in cui venivano utilizzati.

Esecuzioni di massa

Grazie alle testimonianze di ex funzionari carcerari e detenuti, Amnesty International ha ricostruito un quadro dettagliato che evidenzia come le autorità siriane abbiano compiuto esecuzioni extragiudiziali di migliaia di detenuti nell’edificio rosso di Saydnaya dal 2011. Le esecuzioni avvenivano sotto forma di impiccagioni di massa. Prima di essere impiccati, i detenuti venivano condannati a morte attraverso un “processo” che durava da uno a tre minuti, svolto in uno dei due tribunali militari da campo situati nel quartier generale della polizia militare nel quartiere di al-Qaboun a Damasco. Il giorno dell’esecuzione, che le autorità carcerarie chiamano “la festa”, i prigionieri selezionati venivano prelevati dalle loro celle nel pomeriggio e informati che sarebbero stati trasferiti in prigioni civili in Siria. Tuttavia, venivano invece portati in una cella nel seminterrato dell’edificio rosso, dove venivano brutalmente picchiati. Tra la mezzanotte e le 3 del mattino, venivano trasferiti nell’edificio bianco di Saydnaya, dove venivano impiccati in una stanza nel seminterrato. I loro corpi venivano poi caricati su un camion, registrati all’ospedale Tishreen e infine seppelliti in fosse comuni situate in terreni militari vicino a Damasco.

Dal 2011, le esecuzioni sono state condotte in segreto e sono conosciute solo dalle guardie, dai funzionari coinvolti e dai vertici del regime siriano. La maggior parte delle vittime, precedentemente sottoposte a sparizione forzata a Saydnaya, non ha mai avuto notizie delle loro famiglie. Secondo testimonianze di ex membri delle autorità carcerarie, le esecuzioni extragiudiziali sono iniziate nel settembre 2011, con un aumento progressivo della frequenza. Nei primi quattro mesi, tra sette e 20 persone venivano giustiziate ogni 10-15 giorni. Successivamente, dal quinto mese al quindicesimo, tra 20 e 50 persone venivano giustiziate settimanalmente, solitamente il lunedì sera. Nei successivi sei mesi, le esecuzioni aumentavano fino a coinvolgere gruppi di 20-50 persone, generalmente il lunedì e/o il mercoledì. Le testimonianze indicano che questo ritmo di esecuzioni sia proseguito, o addirittura aumentato, almeno fino a dicembre 2015. Amnesty International stima che tra 5.000 e 13.000 persone siano state giustiziate a Saydnaya tra il 2011 e il 2015. Anche se non ci sono prove dirette di esecuzioni dopo il 2015, i detenuti continuano ad essere trasferiti a Saydnaya e i “processi” presso i tribunali militari sono ancora in corso, suggerendo che le esecuzioni potrebbero non essere cessate.

Il numero di esecuzioni sembra essere aumentato in concomitanza con le amnistie presidenziali, come quelle emesse il 10 gennaio 2012, il 23 ottobre 2012, il 16 aprile 2013, il 30 ottobre 2013 e il 9 giugno 2014. Secondo ex detenuti e funzionari carcerari, le esecuzioni venivano effettuate in modo massiccio nelle settimane precedenti e successive a queste amnistie.

Il “processo” nei tribunali militari da campo

I detenuti giustiziati a Saydnaya venivano sottoposti a un “processo” presso uno dei tribunali militari da campo, i cui procedimenti erano tanto sommari e arbitrari da non poter essere considerati veri e propri processi giudiziari. I tribunali militari da campo sono stati istituiti in Siria con il decreto legislativo n. 109 del 1968 e hanno giurisdizione sui crimini commessi “in tempo di guerra o durante operazioni militari”. Sono generalmente gestiti da personale militare e non sono obbligati a seguire la legislazione vigente, con l’assenza di possibilità di appello. Le sentenze emesse devono essere approvate dal presidente e dal Ministro della Difesa, che hanno la facoltà di ridurre o sospendere la pena.

I detenuti provenienti dall’edificio rosso di Saydnaya venivano quasi sempre processati e condannati da uno dei due tribunali militari da campo situati nel quartier generale della polizia militare a Damasco. Non vi è differenza giurisdizionale tra i due tribunali, ma ne è stato istituito un secondo per gestire l’alto numero di detenuti. I prigionieri venivano trasportati al tribunale in camion bianchi, conosciuti come “frigoriferi per la carne” o minibus bianchi. Durante il tragitto, venivano bendati e ammanettati, sebbene a volte le bende venissero rimosse temporaneamente al ritorno.

I “processi” a cui sono sottoposti i detenuti di Saydnaya duravano generalmente da uno a tre minuti. Il giudice emetteva la condanna basandosi sulla “confessione” estorta sotto tortura dal prigioniero. Le condanne variavano e includevano l’ergastolo o la pena di morte. I detenuti processati dal tribunale militare da campo non erano informati della sentenza né avevano accesso a un avvocato. 

Un ex funzionario di Saydnaya ha descritto così le procedure del tribunale militare da campo dopo il 2011:   

“Se la confessione è grave, vieni mandato al tribunale da campo… Per tutti, senza eccezioni, la confessione è stata estorta sotto tortura. Ovviamente, torturano le persone per costringerle a confessare accuse più gravi… Se l’agenzia di intelligence decide che la persona deve essere giustiziata, la manda al tribunale da campo. Se invece pensano che debba restare in prigione a lungo, la mandano alla Corte antiterrorismo. Il processo dura di solito da uno a due minuti… La Corte da campo non è altro che una farsa”. 

Un ex giudice siriano che ha lavorato alla Corte militare da campo ha spiegato:  

“Questa è la corte dove mandano le persone che considerano un pericolo per il regime. Le persone processate lì sono accusate di crimini contro lo Stato. Puoi essere mandato lì anche senza prove contro di te… La Corte militare da campo è la più pericolosa per i detenuti. Anche se non ci sono prove contro di te, o solo una confessione ottenuta dall’intelligence, puoi essere giustiziato sulla base di quella confessione… La Corte non è obbligata a seguire il sistema legale siriano, è al di fuori delle regole. I detenuti passano lì pochissimo tempo, uno o due minuti, e poi vengono rimandati fuori. Il giudice chiederà il nome del detenuto e se ha commesso il crimine. Che la risposta sia sì o no, verrà comunque condannato… Questa corte non ha nulla a che fare con lo stato di diritto. Non è una corte”.  

Le condanne a morte emesse dalla Corte militare da campo dovevano essere approvate da alti funzionari prima di essere eseguite. Subito dopo il processo, la condanna a morte del detenuto veniva inserita in una sentenza che includeva una descrizione del presunto crimine, elencava tutti i coinvolti e affermava che i responsabili dovevano essere condannati a morte. Questa sentenza poteva riguardare una o più persone, a seconda della natura del crimine. 

La sentenza veniva firmata dal capo della Corte militare da campo e da un rappresentante delle forze di sicurezza, di solito dell’intelligence militare. Il giudice che aveva processato il detenuto, denominato Procuratore militare, firmava e approvava questa sentenza. La condanna veniva poi inviata al Gran Mufti della Siria e al Ministro della Difesa tramite posta militare.

Quando un detenuto veniva portato nella “stanza delle esecuzioni”, non era ancora consapevole di cosa stesse per accadere. Tuttavia, una volta entrato, gli veniva ordinato di formare una coda fino alla piccola scrivania nell’angolo della stanza a sinistra. Qui, veniva istruito a esprimere le sue ultime volontà e a apporre un’impronta digitale su una dichiarazione che documentava la sua morte. Questo era il primo momento in cui il detenuto veniva informato della sua condanna a morte. Anche in quel momento, però, non era ancora consapevole di come sarebbe stata eseguita l’esecuzione. In nessun momento veniva spiegato ai detenuti il metodo della loro morte. Durante tutto questo processo, i prigionieri rimanevano bendati. Un ex funzionario della prigione ha raccontato: 

“Alcuni di loro rimasero in silenzio dopo aver lasciato l’impronta digitale sulla carta, e alcuni svanirono proprio lì. Ma non sapevano quando o come sarebbe successo: impiccandosi, sparando o in qualche altro modo”. Ha aggiunto che la firma del documento era superficiale: “Prima prendevano le ultime volontà, ma era solo una formalità. Non portava a niente o significava niente. [Il modulo] includeva il nome, il nome della madre, da dove provenivano, il loro numero di identificazione e il loro ultimo desiderio”.

Successivamente, i detenuti venivano condotti sulle piattaforme, ancora bendati. L’ex funzionario della prigione ha descritto il processo di impiccagione: “Li mettevano in fila e li preparavano per l’esecuzione. Aspettavano che tutti gli spazi fossero pieni prima di mettere i cappi. Poi mettevano i cappi e li spingevano o li lasciavano cadere immediatamente, quindi non sapevano cosa stava succedendo fino all’ultimo momento”

Dopo che le vittime venivano spinte o lasciate cadere, solitamente rimanevano appese per circa 15 minuti. A quel punto, il medico nella stanza indicava quali detenuti non erano ancora morti. Le vittime venivano quindi tirate giù dagli assistenti degli ufficiali, provocando la rottura del collo. Un ex giudice del tribunale militare ha ricordato questa fase dell’esecuzione: “Li tenevano lì per 10 o 15 minuti. Alcuni non morivano perché erano leggeri. Per i più giovani, il loro peso non li uccideva. Gli assistenti degli ufficiali li tiravano giù e gli rompevano il collo. Due assistenti erano incaricati di questo”.

I detenuti tenuti nell’edificio bianco, nei piani sopra la “stanza delle esecuzioni”, hanno riferito di aver sentito a volte i suoni di queste impiccagioni. Hamid, un ex ufficiale militare arrestato nel 2012, ha ricordato i suoni che sentiva durante un’esecuzione notturna: “Si sentiva il rumore di qualcosa che veniva tirato fuori, come un pezzo di legno, non ne sono sicuro, e poi si sentiva il suono di loro che venivano strangolati… Se appoggiavi le orecchie sul pavimento, potevi sentire il suono di un gorgoglio. Questo durava circa 10 minuti… Dormivamo sopra il suono delle persone che soffocavano a morte.”

Tra le 2 e le 6 del mattino, i corpi delle vittime venivano trasferiti dalla sala delle esecuzioni su grandi camion. Arrivavano a Saydnaya dall’ospedale Tishreen. A seconda del numero di corpi da trasportare, uno o due camion venivano inviati per raccogliere i corpi.

I corpi venivano trattati in modi diversi, a seconda del numero di vittime e delle forniture disponibili: venivano caricati nei camion in scatole di legno, in sacchi trasparenti o semplicemente nei loro vestiti. Un ex funzionario della prigione ha descritto il processo di carico: 

“Di solito c’era abbastanza spazio per mettere tutte le persone giustiziate in un solo camion. Cinquanta persone potevano stare in un camion. Se il numero era inferiore, usavano bare di legno. I camion erano grandi, da quattro o cinque tonnellate, quindi potevano trasportare un gran numero di corpi”.

Fosse comuni 

I corpi delle vittime venivano poi trasportati da Saydnaya all’ospedale militare di Tishreen, dove venivano registrati dai funzionari dell’ospedale. Secondo le ex autorità carcerarie di Saydnaya, i corpi non venivano fotografati in questa fase dalla polizia militare, poiché non era necessario che le autorità confermassero o registrassero la causa della morte. Come nei casi di coloro che morivano a causa di torture e altri maltrattamenti a Saydnaya, ai familiari delle vittime dell’esecuzione non venivano consegnati i resti e non venivano mai informati della loro morte. 

A differenza delle vittime di torture, però, le vittime dell’esecuzione non venivano registrate nei certificati di morte. Al loro posto, la documentazione che registrava la morte veniva conservata dalle autorità siriane. Nessuna di queste registrazioni era accessibile al pubblico. Di conseguenza, alle famiglie non venivano fornite informazioni riguardo coloro che venivano giustiziati. I corpi delle vittime venivano trasportati dall’ospedale di Tishreen a fosse comuni situate su terreni militari vicino a Damasco. 

Secondo due ex funzionari della prigione di Saydnaya, i corpi venivano spesso portati a Najha, un piccolo villaggio sulla strada principale tra Sweida e Damasco. A Najha, i corpi venivano frequentemente sepolti in un cimitero preesistente, che a volte veniva definito “la fossa sporca”. Gli ex funzionari avevano anche affermato che i corpi venivano depositati in una fossa comune a Qatana, una piccola città nella periferia occidentale di Damasco, all’interno della base militare della Divisione 10.

Il destino dei “detenuti” nell’edificio rosso

Coloro che sopravvivevano alla loro detenzione nell’edificio rosso di Saydnaya descrissero una serie di procedure fisse, regole e punizioni inflitte ai detenuti dal 2011. Le loro testimonianze, agghiaccianti nella loro coerenza, evocavano un mondo attentamente progettato per umiliare, degradare, ammalare, far morire di fame e infine uccidere coloro che erano intrappolati all’interno. 

I detenuti nell’edificio rosso erano sottoposti a un programma consolidato di abusi. 

Al loro arrivo a Saydnaya, venivano sottoposti a una brutale sessione di percosse, che a volte risultava letale. I detenuti che sopravvivevano venivano trasferiti in piccole celle sotterranee, dove venivano stipati, nudi, nella piccola area doccia sul retro delle loro celle. Dopo diversi giorni o settimane, venivano trasferiti al piano superiore, in stanze più grandi, dove continuavano a sopportare torture quotidiane e condizioni indicibili, tra cui la regolare negazione di cibo, acqua, medicine e cure mediche. 

Molti detenuti morirono a causa di questo trattamento. Tale fu il trattamento disumano dei detenuti trattenuti a Saydnaya che Amnesty International concluse che loro e i detenuti trattenuti in altri centri di detenzione gestiti dal governo erano stati sottoposti a “sterminio”, definito dallo Statuto di Roma della Corte penale internazionale come “l’inflizione intenzionale di condizioni di vita, tra cui la privazione dell’accesso a cibo e medicine, calcolate per provocare la distruzione di una parte di una popolazione”.

Quando i detenuti venivano uccisi dalle politiche di sterminio delle autorità siriane, i loro corpi venivano prelevati dalle celle al mattino, trasferiti in camion e minibus all’ospedale militare di Tishreen e registrati nei referti medici e nei certificati di morte come morti a causa di insufficienza cardiaca o insufficienza respiratoria. Da lì, venivano trasferiti in camion verso fosse comuni su terreni militari vicino a Damasco.

Le torture

Ex detenuti hanno raccontato di essere stati trasferiti dai vari rami delle forze di sicurezza a Saydnaya in camion bianchi per le consegne, noti come “frigoriferi per la carne”.

Al loro arrivo in prigione, i detenuti vengono immediatamente sottoposti a gravi percosse, ampiamente note come “festa di benvenuto”. Ex detenuti hanno riferito che queste percosse erano spesso dirette alla testa e talvolta hanno portato alla morte dei loro compagni detenuti.

Un ex funzionario di Saydnaya ha confermato questa pratica da parte delle autorità carcerarie:

Arriva il camion bianco e dentro c’erano solitamente tra 50 e 60 prigionieri. Ovviamente sono bendati. Due guardie si avvicinavano alla macchina… Iniziavano a buttarli giù dal furgone.

I soldati mettevano in pratica la loro “ospitalità” con ogni nuovo gruppo di detenuti durante la “festa di benvenuto”… Ti buttavano a terra e usavano diversi strumenti per le percosse: cavi elettrici con estremità di filo di rame esposte – hanno piccoli uncini così prendono una parte della tua pelle – normali cavi elettrici, tubi dell’acqua di plastica di diverse dimensioni e barre di metallo. Hanno anche creato quella che chiamano la “cintura del carro armato”, che è fatta di pneumatici tagliati a strisce… Fanno un suono molto specifico; sembra una piccola esplosione. Ero bendato per tutto il tempo, ma cercavo di vedere in qualche modo. Tutto quello che vedi è sangue: il tuo sangue, il sangue degli altri. Dopo un colpo, perdi la percezione di ciò che sta accadendo. Sei sotto shock. Ma poi arriva il dolore.

I detenuti vengono quindi portati in gruppi da cinque a 15 persone in piccole celle sotterranee, chiamate dalle guardie e dai detenuti “i solitari”. Una volta che i detenuti raggiungono queste celle, di solito viene loro ordinato di spogliarsi nudi e di ammassarsi nella piccola area doccia della cella. I detenuti sono costretti a rimanere nell’area doccia per alcune ore o giorni, o per tutta la durata della loro detenzione nelle celle sotterranee, che in genere dura da alcuni giorni a un mese. 

A Saydnaya, la tortura non viene usata per costringere un detenuto a “confessare”, come avviene nelle sezioni delle forze di sicurezza, ma piuttosto come metodo di punizione e degradazione. La forma di tortura più comune usata a Saydnaya sono le percosse regolari e brutali. I detenuti hanno raccontato ad Amnesty International che le percosse che hanno subito erano a volte così gravi da causare danni permanenti e disabilità o morte.

Ex detenuti hanno raccontato ad Amnesty International di essere stati anche sottoposti a violenza sessuale a Saydnaya, tra cui lo stupro. 

Durante la loro detenzione a Saydnaya, ai detenuti veniva negato un cibo o cibo adeguato, il che portava a malnutrizione e fame, rendendoli vulnerabili a gravi malattie come la tubercolosi. Almeno tre ex detenuti hanno riferito di aver perso metà del loro peso corporeo, o anche di più, durante la loro permanenza a Saydnaya.

Oltre ai tipi di tortura, Saydnaya aveva delle regole operative, molte delle quali erano uniche e diverse da quelle imposte nei centri di detenzione gestiti dalle forze di sicurezza. Ad esempio, secondo ex guardie, ufficiali e detenuti di Saydnaya, ai prigionieri veniva imposto di mantenere il silenzio in ogni momento; non era loro consentito parlare o sussurrare. 

L’ex detenuto “Hassan” ha descritto l’ambiente creato da questa regola: “Nella prigione c’era un silenzio completo, l’assenza di qualsiasi suono. Se lanciavi un ago, lo sentivi… Era un tipo di silenzio che non si poteva concepire”.

Ai detenuti veniva anche ordinato di assumere una determinata posizione ogni volta che le guardie passavano o entravano nelle celle. Ahmed ha spiegato: “Quando

arrivavano, dovevamo stare in ginocchio, rivolti verso il muro e coprirci gli occhi con i palmi delle mani”.

I detenuti hanno raccontato ad Amnesty International che, oltre a queste regole, era loro vietato guardare le guardie, poiché ogni sguardo veniva punito con la morte. Inoltre, il cibo non doveva essere toccato senza l’autorizzazione delle guardie e le coperte dovevano essere usate solo di notte, indipendentemente da quanto fosse freddo nella cella.

La situazione dopo la caduta del regime

In seguito al rovesciamento del regime di al-Assad, i ribelli dell’opposizione hanno liberato migliaia di persone da una rete di prigioni che caratterizzavano il regime repressivo di Bashar al-Assad. Arrivando da nord, i ribelli presero prima Aleppo, poi Hama, Homs e Damasco. Lungo il percorso, fecero irruzione nelle prigioni centrali, rassicurando i prigionieri che uscivano barcollando, fragili e confusi, dicendo loro che erano finalmente al sicuro. Annunciarono che il regime era sull’orlo della caduta, o che fosse già caduto, e mostrarono al mondo le condizioni in cui migliaia di persone erano state tenute per anni o addirittura decenni.

Il lavoro di salvataggio proseguì, con combattenti e operatori umanitari che si affannavano a trovare prigionieri rimasti indietro, aprire celle segrete e scoprire l’ubicazione di strutture clandestine. Offrendo una debole speranza a innumerevoli famiglie siriane i cui cari erano “scomparsi” in un sistema carcerario segreto o simile a un campo di sterminio. 

Tra marzo 2011 e agosto 2024, circa 157.634 siriani furono arrestati, tra cui 5.274 bambini e 10.221 donne. Migliaia di altri furono rapiti dai temuti servizi di sicurezza siriani durante il regime di Hafez al-Assad. Secondo i gruppi di soccorso, numerose persone erano ancora intrappolate nelle prigioni sotterranee. 

Le autorità chiesero agli ex soldati e alle guardie carcerarie di fornire alle forze di opposizione le password per sbloccare le porte elettroniche sotterranee, suggerendo che migliaia di detenuti fossero ancora intrappolati in queste strutture, come confermato dalle immagini delle telecamere di sorveglianza. I Caschi Bianchi siriani hanno offerto anche una ricompensa in denaro a chiunque si fosse fatto avanti con informazioni su strutture segrete.

Da Lunedì scorso, è in corso una ricerca intensa nella prigione per individuare “celle sotterranee nascoste, che presumibilmente contengono detenuti”, come dichiarato dal gruppo di soccorso dei Caschi Bianchi, che ha già inviato squadre di emergenza nella struttura.

I soccorritori siriani stanno esplorando la prigione, per cercare e liberare i detenuti, mentre scoprono le atrocità che si sono consumate sotto il governo al-Assad. Raed al-Saleh, direttore dei Caschi Bianchi, ha dichiarato che la prigione era un “inferno” per i prigionieri, descrivendo Saydnaya non come una prigione, ma come un “mattatoio umano” dove le persone venivano massacrate e torturate. Al-Saleh ha anche raccontato di aver visto corpi nei forni crematori, testimoniando che le esecuzioni quotidiane facevano parte della routine del carcere.

I Caschi Bianchi hanno aiutato a liberare tra i 20.000 e i 25.000 prigionieri da Saydnaya, ma ancora decine di migliaia di persone risultano disperse. I prigionieri liberati hanno descritto aree della prigione accessibili solo con codici speciali e sotterranei segreti dove ancora si trovano detenuti. Nel frattempo, famiglie con parenti scomparsi continuano a cercare i loro cari, sperando di trovarli a Saydnaya o in altre prigioni. 

Crediti immagine copertina: Anadolu