L’incontro tra Benjamin Netanyahu e Donald Trump alla Casa Bianca segna un momento chiave nelle relazioni tra Stati Uniti e Israele, con implicazioni profonde per il futuro di Gaza, la Cisgiordania e i rapporti con l’Arabia Saudita. Mentre Washington cerca di mantenere la sua influenza in Medio Oriente, il piano di Trump sulla Striscia di Gaza ha già suscitato reazioni contrastanti, sia a livello internazionale che all’interno della società israeliana.
L’“Amministrazione più filo-israeliana della storia”
Netanyahu, lasciando Tel Aviv, ha elogiato Trump e il suo nuovo governo, dichiarando che “rafforzeremo la sicurezza e realizzeremo una nuova era di pace mediante la forza”. Il fatto che il leader israeliano sia stato il primo capo di stato a essere ricevuto alla Casa Bianca conferma l’orientamento dichiaratamente filo-israeliano dell’amministrazione americana.
Nel frattempo, il consigliere di Trump per il Medio Oriente, Steve Witkoff, è in missione tra Qatar, Egitto e Israele per preparare la seconda fase della tregua con Hamas, che dovrebbe iniziare a marzo con la liberazione di circa 60 ostaggi. Tuttavia, l’incertezza sulla reale volontà di Israele di rispettare gli accordi rischia di far naufragare i negoziati.
Il Piano Trump per Gaza: deportazione e occupazione?
L’aspetto più controverso dell’incontro è stato il cosiddetto “piano Trump” per Gaza. Il presidente americano ha proposto di svuotare la Striscia della popolazione palestinese e di trasferirla in altri paesi, per poi avviare una ricostruzione sotto il controllo diretto degli Stati Uniti.
Le dichiarazioni di Trump sulla possibilità di “ripulire Gaza” hanno suscitato reazioni forti nel mondo arabo. L’idea di deportare 2,2 milioni di palestinesi è stata accolta con favore da settori della destra israeliana e da una parte significativa della popolazione ebraica israeliana. Secondo un sondaggio dell’Istituto JPPI Israel Index di Gerusalemme, sette israeliani su dieci ritengono che “gli arabi di Gaza dovrebbero trasferirsi altrove”.
Questa visione radicale, sostenuta solo marginalmente nei decenni precedenti, sta diventando dominante in Israele, mentre i palestinesi con cittadinanza israeliana si oppongono fermamente. Il 3% degli israeliani ebrei considera il piano “immorale”, ma la maggioranza lo vede come un’opzione praticabile, seppur difficile da realizzare.
Le pressioni di Netanyahu e la qestione della Cisgiordania
Netanyahu sembra determinato a convincere Trump che la prosecuzione della guerra è l’unica soluzione possibile. Secondo Haaretz, Israele non intende rispettare la seconda fase del cessate il fuoco—che prevederebbe il ritiro dell’esercito da Gaza—senza aver prima raggiunto l’obiettivo dello sradicamento totale di Hamas. Anche di fronte alla disperazione dei familiari degli ostaggi israeliani, Netanyahu rimane fermo sulla sua posizione.
Ma c’è anche un’altra strategia possibile: invece della guerra, Netanyahu potrebbe cercare l’appoggio di Trump per una normalizzazione con l’Arabia Saudita all’interno degli Accordi di Abramo, ottenendo il riconoscimento della sovranità israeliana sulla Cisgiordania e una linea comune su Iran e sicurezza regionale.
Jenin: la guerra in Cisgiordania
Mentre Gaza è al centro delle trattative, la situazione in Cisgiordania si aggrava. Jenin è sotto assedio da due settimane, con operazioni militari israeliane sempre più intense. L’esercito israeliano (IDF) ha annunciato di aver ucciso 55 presunti militanti palestinesi dall’inizio dell’anno, operando principalmente nei campi profughi e nelle città della Cisgiordania occupata.
Secondo l’IDF, si tratterebbe di membri di gruppi armati palestinesi, tra cui Hamas, la Jihad Islamica Palestinese e le Brigate dei Martiri di Al-Aqsa. Tuttavia, fonti palestinesi e organizzazioni per i diritti umani denunciano che tra le vittime ci sarebbero anche civili, compresi minori, e che gli attacchi dell’esercito stanno colpendo indiscriminatamente intere comunità.
L’assedio di Jenin ha portato a migliaia di sfollati e alla distruzione di infrastrutture civili, con forti restrizioni imposte ai funerali delle vittime palestinesi. Le famiglie sono costrette a seppellire i propri cari in segreto, per evitare i cecchini israeliani appostati sui tetti degli edifici più alti della città. Le processioni funebri sono vietate dall’esercito, e ai funerali è permessa solo la presenza di due familiari per defunto.
La situazione a Jenin sembra rientrare in una strategia più ampia di escalation militare in Cisgiordania. Le operazioni israeliane stanno aumentando di intensità, alimentando il timore di un allargamento del conflitto. Secondo alcuni analisti, ciò potrebbe essere un preludio all’annessione di porzioni della Cisgiordania, una prospettiva che Netanyahu potrebbe voler discutere con Trump per consolidare il sostegno della sua base politica di destra.
Nel frattempo, la tensione continua a crescere, con la possibilità che la guerra in Cisgiordania diventi un secondo fronte permanente, mentre il conflitto a Gaza rimane irrisolto.
Un futuro incerto
La politica di Trump su Gaza e la Cisgiordania si muove in una direzione che potrebbe stravolgere gli equilibri del Medio Oriente. Se da un lato l’amministrazione americana cerca un riavvicinamento tra Israele e Arabia Saudita, dall’altro la prospettiva di una deportazione di massa dei palestinesi e un’espansione territoriale israeliana rischiano di alimentare ulteriormente le tensioni.
L’obiettivo dichiarato di Trump è “risolvere la crisi in 100 giorni”, ma la realtà sul terreno appare molto più complessa. Netanyahu, dal canto suo, tornerà in Israele con una serie di nuove carte da giocare, cercando di bilanciare il consenso interno e le pressioni internazionali. Ma il prezzo da pagare potrebbe essere un’escalation senza precedenti.
Crediti immagine copertina: Getty