Qualche giorno fa è stata approvata dal Parlamento italiano una mozione, presentata dalla senatrice Liliana Segre sulla questione del cosiddetto “hate speech”, al fine di monitorare e limitare le manifestazioni d’odio in rete.
La senatrice è vittima da diverso tempo di attacchi e offese dettati dall’odio xenofobo in quanto ebrea ed è in prima fila in questa battaglia.
Il testo pubblicato da un sito ebraico italiano e’ questo.
La mozione riconosce la difficoltà di operare in questo senso in quanto non esiste una definizione univoca di hate speech ed intende affrontare in modo organico il problema, anche attraverso la consulenza di esperti, facendo tesoro della normativa precedente
Il punto di riferimento, temporalmente molto lontano è la “raccomandazione n. (97) 20 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa del 30 ottobre 1997,’’ che delimita la fattispecie dello hate speech differenziandola dal reato penale di crimine d’odio.
Questo termine “copre tutte le forme di incitamento o giustificazione dell’odio razziale, xenofobia, antisemitismo, antislamismo, antigitanismo, discriminazione verso minoranze e immigrati sorrette da etnocentrismo o nazionalismo aggressivo”. Dunque anche l’islamofobia è presa in considerazione e ce ne rallegriamo, nonostante l’impegno del Governo italiano in questo senso sia pari a zero.
La definizione del fenomeno è problematica perché occorre tutelare i cittadini ed in particolare giornalisti e bloggers, oltre a milioni di utenti dei social, la maggior parte dei quali non si rende conto di quali rischi corre; infatti potrebbero essere sanzionati per aver difeso un nazionalismo non particolarmente amico dell’Europa come potrebbe essere quello catalano (fino ad ora criminalizzato), anche quando si tratta di indipendentismo pacifico.
Analogamente alla lotta degli ucraini del Dombass o alla situazione dei turchi rispetto al PKK, considerato il livello di odio anti-turco promosso dal circo mediatico nelle ultime settimane quasi all’unisono. Criticando Rojava si può essere accusati di odio razziale contro i curdi? Chi critica Israele rischia l’incriminazione per antisemitismo? Se non si gradiscono i Gay Pride, pur non manifestando alcuna intolleranza verso gli omosessuali, si rischia egualmente l’accusa di omofobia? Se un poveraccio con la quinta elementare si disgusta e racconta su Fb che il suo vicino di casa straniero va in giro sporco o sputa per terra potrebbe essere accusato di razzismo?
Per meglio definire il fenomeno si ricorre alle tre categorie: “dell’incitamento, dell’istigazione o dell’apologia. Il termine incitamento può comprendere vari tipi di condotte: quelle dirette a commettere atti di violenza, ma anche l’elogio di atti del passato come la “Shoah”; ma incitamento è anche sostenere azioni come l’espulsione di un determinato gruppo di persone dal Paese o la distribuzione di materiale offensivo contro determinati gruppi”.
Chi giudica offensivo cosa? Perché è ovvio che chi scrive che “i musulmani devono andare al rogo” o che “gli zingari devono essere sterminati” deve essere sanzionato, ma non è così facile stabilire il confine tra la libertà d’espressione e la censura.
La norma fondamentale che vieta ogni forma di odio deve essere considerato “il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966 e reso esecutivo nel nostro Paese dalla legge 25 ottobre 1977, n. 881, che, ex articolo 20, prevede che vengano espressamente vietati da apposita legge qualsiasi forma di propaganda a favore della guerra, ma anche ogni appello all’odio nazionale, razziale o religioso che possa costituire forma di incitamento alla discriminazione o alla violenza”.
Sono quindi “vietate per legge le seguenti categorie di attività: ogni diffusione di idee basate sulla superiorità o sull’odio razziale, ogni incitamento alla discriminazione razziale, nonché ogni atto di violenza o incitamento a tali atti, rivolti contro qualsiasi gruppo di individui di diverso colore o origine etnica; andrà inoltre punita ogni assistenza ad attività razziste compreso il loro finanziamento”.
La punibilità dipende dal tipo di incitazione che viene messa in essere, dalle parole che vengono usate e dall’intenzione sottesa all’incitazione stessa; può essere di natura penale o una semplice multa ed in generale viene comminata in sede di causa civile e o penale promossa dalla parte lesa.
C’è da chiedersi, allora, come siano stati possibili fenomeni di massa di suprematismo o razzismo, come quelli cui assistiamo tutti i giorni; al punto da far sorgere il dubbio se questa buona volontà sia veramente tale, dal momento che assai poco è stato fatto per anni, tranne sostenere alcune manifestazioni contro la discriminazione razziale, in particolare quella contro gli ebrei.
E’ con la prevenzione e l’educazione che si devono limitare questi fenomeni piuttosto che con la censura. L’Italia ha poi un sistema molto complesso di tutele per quanto riguarda la difesa delle vittime. Basti ricordare la legge 13 ottobre 1975, n. 654, di recepimento della Convenzione internazionale sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale del 1966 e il decreto-legge 26 aprile 1993, n. 122, convertito, con modificazioni, dalla legge 25 giugno 1993, n. 205, “decreto Mancino”, che reprime l’incitamento alla violenza per motivi razziali, etnici, nazionali o religiosi.
Nonostante l’entusiasmo di molti, non sembra che cambierà granché; si conferma, invece, il doppio standard che potrebbe diventare censura su contenuti non graditi al potere. Infatti, una Commissione parlamentare, istituita a questo fine da diversi anni, non ha soltanto compiti di monitoraggio o di studio ma proprio di segnalare certi contenuti da far rimuovere ai gestori dei motori di ricerca; e lo fa da anni. E’ stato stabilito che “entro il 30 giugno di ogni anno, la Commissione trasmette al Governo e alle Camere una relazione sull’attività svolta, recante in allegato i risultati delle indagini svolte, le conclusioni raggiunte e le proposte formulate; la Commissione può segnalare agli organi di stampa ed ai gestori dei siti internet casi di fenomeni di intolleranza, razzismo, antisemitismo e istigazione all’odio e alla violenza nei confronti di persone o gruppi sociali sulla base di alcune caratteristiche, quali l’etnia, la religione, la provenienza, l’orientamento sessuale, l’identità di genere o di altre particolari condizioni fisiche o psichiche, richiedendo la rimozione dal web dei relativi contenuti ovvero la loro deindicizzazione dai motori di ricerca”.
Già da anni il Governo italiano segnala a Google i contenuti sgraditi, per farli rimuovere. In circa 30-40% dei casi si tratta davvero di reati di odio razziale, spesso invece si va a colpire la libertà di opinione di chi la pensa come il nemico di turno: oggi Erdogan, domani i palestinesi, dopodomani chissà chi. Gli esperti del tema sono concordi nel segnalare il fatto che la censura mediatica non risolve il problema, ma si traduce in una cappa da regime dittatoriale che grava sulla libertà di espressione, mentre è assente un’opera di prevenzione all’interno della società dove questi fenomeni hanno origine; anzi si lascia che si espandano a macchia d’olio.
“L’idea che il Governo debba controllare un organo di informazione, anche sui generis come Facebook, pone diversi problemi”, afferma Giulio Vigevani, professore di Diritto costituzionale e di Diritto dell’informazione e della comunicazione presso l’Università degli Studi di Milano-Bicocca. “In primo luogo dimostra una certa impotenza da parte dei governi, ma demandare a Facebook il controllo della rete implicherebbe un potere censorio infinito ed incontrollabile. Attraverso algoritmi ed automatismi, potrebbe bloccare i contenuti a propria discrezione con effetti devastanti sulla libertà di espressione. Il secondo aspetto scardina il principio di fondo che i governi non devono interferire ed incidere sulla libertà di informazione.
Dare la possibilità ad autorità governative di entrare nei meccanismi di una società privata è pericoloso. Allora perché non può farlo anche Orban, Putin, Erdogan o Salvini? Se i governi democratici hanno questo atteggiamento, poi non si può essere censori con i regimi dittatoriali”. Una dittatura della maggioranza dove esiste un “politicamente corretto” da salvaguardare ad ogni costo ed il resto a discrezione è comunque una dittatura anche se formalmente si tratta di una democrazia.
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