La moneta, in uno Stato provvisto di una propria sovranità politica e monetaria, serve per imporre la propria valuta nel territorio (potere d’imperio).
Le tasse, diversamente dalla convinzione comune, non servono unicamente per finanziare la spesa pubblica, ma provvedono alla ridistribuzione della ricchezza, regolano l’inflazione e il conto delle partite correnti in un regime di libero scambio, affinché non si crei il vero debito di uno Stato, il debito estero.
L’Italia fino al 1981 per finanziarsi emetteva tramite il Ministero del Tesoro i titoli di Stato che venivano acquistati dalla Banca d’Italia ad un tasso d’interesse, deciso dal governo, più basso rispetto alla crescita annua del PIL, ciò permise ai governi italiani di mantenere il debito pubblico nella media Europea.
Il debito pubblico italiano cominciò a crescere dal famoso divorzio tra la Banca d’Italia e il ministero del tesoro all’ora guidato dal ministro Andreatta, con la conseguenza che i tassi d’interesse sui titoli di Stato non vennero più decisi dal governo ma dal mercato secondario ossia banche, assicurazioni e fondi Italiani. Tale meccanismo, seppur comportò l’innalzamento del debito pubblico e arricchì soprattutto l’alta borghesia italiana, non rappresentò un problema in quanto detenuto dagli italiani.
Il debito pubblico cominciò ad essere un problema quando l’Italia entrò nel sistema monetario Europeo (SME), con l’internazionalizzazione del debito che finì in mani straniere, i cosiddetti investitori istituzionali, banche d’affari e commerciali, fondi d’investimento e assicurazioni.
Con la perdita della sovranità monetaria, l’Italia ha perso il suo status di Stato, ed a oggi si può equiparare ad un qualsiasi soggetto economico, che per finanziarsi e rinnovare le scadenze dei titoli di Stato deve rivolgersi ai mercati. Affinché costoro prestino soldi allo stato il governo, per via sia del suo debito eccessivo (creato ad arte) che dei vincoli europei, fiscal compact, deve tagliare la spesa pubblica e aumentare le tasse creando un circolo vizioso, con la conseguenza dell’aumento del rapporto debito PIL.
L’Italia, dal 1992 anno del suo ingresso nel SME, accumula avanzi primari, in parole povere lo stato tassa più di quanto spende sotto forma di spesa pubblica, in questo modo vengono drenate le risorse fuori dall’economia reale e indirizzate per il pagamento d’interessi sul debito, che sfiora ogni anno la cifra dei 70 miliardi (4% del PIL), basti pensare che l’intera spesa sanitaria è di soli 114 miliardi annui, una vera follia senza uguali al mondo che ci trascina verso l’abbassamento dei salari e i tagli dello stato sociale.
La lotta al contante si colloca all’interno di questo quadro. Attualmente la tassazione in Italia seppur progressiva non è equa, in quanto, è estremamente vessatoria verso il ceto medio e le PMI (piccole e medie imprese).
Tant’è vero che il 12% dei contribuenti italiani paga il 58% dell’intera Irpef, di cui i contribuenti con redditi sopra i 100mila euro lordi (52mila euro netti) sono solo 1,13% del totale (467.442) ma pagano il 19,35% dell’Irpef, mentre la rimanente parte dell’Irpef il 67% è plasmata su redditi tra i 18mila euro fino ai 100mila euro lordi.
Inoltre, vi è paradosso di tutte le multinazionali che operano in Italia e delle persone fisiche milionarie e miliardarie che hanno un ingente patrimonio ma non pagano nemmeno un centesimo allo stato italiano, perché collocano le loro aziende, beni, conti bancari in società offshore in paradisi fiscali (Singapore, Irlanda, Olanda, Lussemburgo, Monaco, Hong Kong ecc.).
Nel nome della libera circolazione dei capitali, queste pratiche seppur dannose ed inique, verso la stragrande maggioranza della popolazione, sono state rese legali. Lo Stato, quindi, non colpisce questi soggetti e l’unica strada percorribile è quella di fare guerra al contante in modo da tracciare tutti gli acquisti e i pagamenti con il pretesto dell’evasione fiscale.
La narrazione si scontra con la realtà, in quanto tutte le multinazionali e le banche non fanno uso di contante ma di pagamenti elettronici, nonostante ciò per i motivi riportati prima, non vengono tassati.
In realtà, la tracciabilità completa dei pagamenti rientra in un disegno ben preciso, la distruzione delle PMI italiane, l’unica costola forte di questo paese, costituiscono il 99,8% dell’intero tessuto produttivo ed occupano l’81% della forza lavoro in Italia.
Queste con una tassazione fino al 60% saranno costrette a dichiarare fallimento lasciando le loro quote di mercato alle invadenti corporation. Ciò è ben descritto nel libro dell’ex funzionario di ruolo del ministero del bilancio e della programmazione economica, direttore generale del ministero del lavoro (1990-2002) l’economista Nino Galloni dal titolo “Chi ha tradito l’economia”.
L’altra motivazione, nel breve periodo, è quella di arricchire il sistema bancario, in quanto, con le transazioni rispetto al contante traggono vantaggio ogni qual volta che avvengono spostamenti.
Una delle questioni non prese in considerazione, è la privacy, in un futuro tecnologicamente avanzato, non troppo lontano, in assenza di materialità e quando tutti saremo dotati di un’identità digitale, per i padroni dei “nuovi mezzi di produzione” non sarà difficile spegnere il dissenso, basterebbe un click. La direzione si comincia ad intravedere con i sistemi di riconoscimento facciale in Cina e i chip sottopelle molto diffusi in Svezia, anche per i pagamenti.
Inoltre, da non dimenticare che tutti i sistemi di pagamento interbancari sono circuiti privati e non di proprietà degli stati, perciò, gli unici ad essere vessati sono i cittadini comuni e non la ristretta cerchia oligarchica, da ciò si può dedurre che il sistema economico nel quali interagiamo è incompatibile con la democrazia, con i principi etici-morali e con qualsiasi idea di giustizia sociale.
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