Adesso le moschee sono diventate una questione urbanistica: una questione di “bandi”, “destinazione d’uso”, “pianificazione territoriale”, “abuso edilizio”. Ma ridurre la questione delle moschee a una questione urbanistica non è operazione neutra. E non solo perché la materia è retta da norme a geometria variabile, mutevoli nel tempo e nello spazio ma anche perché la definizione di un problema collettivo ha sempre carattere politico: a seconda del nome che gli diamo esso verrà pensato in modo diverso dalla pubblica opinione e dagli attori interessati. Sarà dunque cosa diversa se l’oggetto “moschee”viene definito – come lo è stato di volta in volta – una questione di libertà, di sicurezza, o di urbanistica.
L’esercizio del culto come diritto di libertà.
Prima che l’islam diventasse la seconda religione d’Italia, gli spazi della fede venivano inquadrati sotto la voce “libertà costituzionali”. Nel 1958 la Corte Costituzionale si pronuncia a favore di un ministro pentecostale “reo di avere esercitato attività di culto e aperto al pubblico un oratorio” senza aver ottenuto in precedenza le autorizzazioni previste dalla legislazione sui “culti ammessi” e soprattutto “di avere continuato a farlo nonostante l’espresso divieto dell’autorità di pubblica sicurezza”. Stabilisce quindi che “quando si interviene sul diritto alla disponibilità di un luogo di culto per un gruppo religioso si sta disciplinando il diritto alla libertà religiosa” e che esso in quanto tale non può essere sottoposto a controlli preventivi da parte delle autorità di pubblica sicurezza né a restrizioni motivate da ipotetici “futuri comportamenti”.
A rileggere oggi tale sentenza pare di sognare. Come si è potuti arrivare da quel pronunciamento alla situazione odierna che vede una comunità musulmana presente in Italia stimata intorno ai 2,6 milioni di persone disporre su tutto il territorio nazionale di una manciata di luoghi di culto formalmente in regola, mentre centinaia di altri vivono precariamente tra tolleranza informale e discrezionalità amministrativa?
Ci si è arrivati declassando progressivamente il diritto alla “disponibilità di un luogo di culto per un gruppo religioso”, quale diritto costituzionalmente protetto, alle esigenze di una minoranza “straniera” subordinate alla sicurezza nazionale, e infine a materia di pianificazione urbanistica subordinata alla disponibilità di aree adeguate. Questa progressiva retrocessione è avvenuta in parallelo all’espansione della comunità musulmana in Italia. Così quanto più la questione dei luoghi di culto – ben più antica – diventava in primis questione delle moschee, tanto più essa veniva spostata dalla sua cornice appropriata – quella dei diritti costituzionali – entro altre cornici giuridiche sempre meno garantiste.
Quando negli anni ’70 il quadro istituzionale italiano muta profondamente con l’attuazione del decentramento regionale le regioni – in assenza di una legge-quadro dello Stato – si trovano a regolare in toto, nell’ambito dei loro poteri di governo del territorio, la materia definita come “edilizia di culto”. Così tra gli anni Ottanta e Novanta vengono varate alcune leggi di cui la Corte costituzionale, ancora una volta, sancisce la parziale incostituzionalità, su ricorso questa volta dei Testimoni di Geova, perché riservano spazi e contributi per i luoghi di culto alle sole religioni titolari di una intesa con lo stato. E di nuovo al legislatore regionale viene ricordato che sta “disciplinando una materia che ha un diretto impatto con la libertà religiosa”
L’esercizio del culto come problema di sicurezza
Siamo a metà degli anni Novanta e l’Italia da paese di emigranti è diventata paese di immigrati. Sono questi in maggioranza cristiani ortodossi o cattolici. I musulmani sono al secondo posto e l’islam diventa la seconda religione d’Italia. Da quel momento nella produzione normativa si scrive luoghi di culto ma si legge moschee.
Facendo dell’oggetto moschee una questione di “sicurezza” – e pazienza se i giovani terroristi crescono lontano dalle moschee – lo si pone sotto la competenza del Ministro dell’Interno. Il momento apicale di questa ridefinizione si ha quando ministro è Marco Minniti, promotore di un “Patto nazionale per l’islam italiano” definito dalla destra una fotocopia del progetto di legge Santanché “Istituzione del Registro pubblico delle moschee e dell’Albo nazionale degli imam”.5 Solo che derubricando alcuni provvedimenti in materia di culto da proposte di legge in “patti” volontari li si sottrae al controllo costituzionale.
E infatti mentre la proposta di legge Santanché è stata respinta dalla Commissione Affari costituzionali della Camera come anticostituzionale il “Patto per l’islam italiano” che di cose anticostituzionali ne contiene ben di più è stato solennemente firmato nel febbraio 2017 e presentato dalle maggiori associazioni islamiche italiane come un grande successo per i musulmani i quali hanno perso una buona occasione per mostrare di conoscere la Costituzione meglio di certi partiti e certi ministri.
E anche di mettere in pratica la shura discutendo il testo nelle comunità (cosa di cui il Ministro non si è preoccupato). Oggi, ridefinita la questione sicurezza in termini di sbarchi di migranti, il focus politico-mediatico si è spostato sul memorandum d’intesa con la Libia – anch’esso promosso a suo tempo da Minniti – e il Patto giace in un cassetto in attesa di migliore occasione.
L’esercizio del culto come materia urbanistica
Ecco allora che la questione dei luoghi di culto viene ricondotta sostanzialmente alla cornice urbanistica, sulla falsariga di quanto le regioni del nordest avevano già tentato di fare negli anni precedenti, infilando surrettiziamente materia di libertà religiosa dentro il contenitore di leggi sul governo del territorio. E poco importa che la Corte costituzionale abbia dichiarato la parziale incostituzionalità delle leggi in questione in quanto “non è consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione” né è ammissibile un “utilizzo arbitrario della convenzione urbanistica per inserire obblighi o restrizioni che nulla hanno a che fare con aspetti urbanistici ma incidono su diritti fondamentali”7 con riferimento all’imposizione della lingua italiana per tutte le attività svolte in immobile adibito al culto. Perché nel frattempo ci ha già pensato il Consiglio di Stato a contrappone ai “diritti costituzionalmente tutelati, quale è il libero esercizio del culto” la “corretta applicazione della normativa edilizia”
Andiamo allora a vederla questa normativa edilizia. Basta un giro nelle nostre città per imbattersi un po’ ovunque in garage trasformati in palestre, seminterrati in studi professionali, magazzini in circoli culturali, bar o negozi in abitazioni. Tutti abusivi senza che nessuno si lamenti? O perlopiù regolari? E in tal caso come mai gli unici “cambi di destinazione d’uso” per usare il gergo urbanistico, che non sono mai regolari e a quanto pare nemmeno regolarizzabili malgrado tutta la buona volontà degli interessati, sono le sedi di associazioni musulmane che fungono anche da sale di preghiera?
Leggi, regolamenti e atti amministrativi, nella loro complessità tecnica, hanno sempre a monte scelte politiche. Vent’anni fa la legge 382/2000 per sostenere il Terzo Settore stabiliva che sedi e locali di attività delle Associazioni di Promozione Sociale sono compatibili con tutte le destinazioni d’uso indipendentemente dalla destinazione urbanistica. Quando alcuni comuni (Torino e diversi in Emilia Romagna) incoraggiarono le associazioni musulmane a optare per lo status associativo di APS che avrebbe permesso di regolarizzare molte sedi intervenne prontamente il Consiglio di Stato a negare tale possibilità.
Dieci anni fa Berlusconi varava il Piano Casa che deroga agli strumenti urbanistici per rispondere alle emergenze abitative. Cinque anni fa il decreto “Sblocca Italia” di Renzi prevede un’altra gamma di semplificazioni e permessi di costruire in deroga alle destinazioni d’uso. In questo generale contesto di liberalizzazione o deregulation, secondo i punti di vista, solo il bisogno e il diritto dei musulmani di spazi per pregare sono sempre rimasti fuori.
Ci sono comuni – memori della nostra secolare tradizione di autonomia – che si ostinano a cercare soluzioni. Torino si è inventato quella di inquadrare le associazioni islamiche come soggetti privati che dichiarano svolgere attività di pubblico servizio in convenzione con l’amministrazione locale, includendo formalmente l’attività di culto tra queste. A dimostrazione del fatto che la questione dei luoghi di culto non si riduce necessariamente a “normativa edilizia”.
Se l’esercizio della libertà religiosa va tradotto in pratica quotidiana allora l’urbanistica non dovrebbe essere uno strumento vessatorio ma un’occasione. A questo fine sarebbe opportuno – in applicazione ai princìpi di libertà e di sussidiarietà – togliere alle regioni la competenza in materia di luoghi di culto e dividerla correttamente tra lo stato garante delle libertà di tutti ed i comuni come livello più vicino ai cittadini. Perché la città non è solo urbs – pianificazione ed edilizia – ma è anche civitas – cioè diritti di cittadinanza – e polis – spazio politico di libertà.
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